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ROME, February 25, 2012 – As of tomorrow, it will be Lent for all. According to the Roman rite, this has already begun with Ash Wednesday, while according to the Ambrosian rite used in the archdiocese of Milan, which observes an older calendar, this dynamic period of the liturgical year begins on the sixth Sunday before Easter.
Dynamic period? In the widespread mentality of the West, Lent has been greatly weakened. More attention is given to the Muslim Ramadan.
But Benedict XVI is pushing, visibly, to restore meaning and vigor to this time of preparation for Easter.
This year, as in the two previous years, in addition to the traditional message to the faithful:
Venerati Fratelli,
cari fratelli e sorelle!
Con questo giorno di penitenza e di digiuno – il Mercoledì delle Ceneri – iniziamo un nuovo cammino verso la Pasqua di Risurrezione: il cammino della Quaresima. Vorrei soffermarmi brevemente a riflettere sul segno liturgico della cenere, un segno materiale, un elemento della natura, che diventa nella Liturgia un simbolo sacro, molto importante in questa giornata che dà inizio all’itinerario quaresimale. Anticamente, nella cultura ebraica, l’uso di cospargersi il capo di cenere come segno di penitenza era comune, abbinato spesso al vestirsi di sacco o di stracci. Per noi cristiani, invece, vi è quest’unico momento, che ha peraltro una notevole rilevanza rituale e spirituale.
Anzitutto, la cenere è uno di quei segni materiali che portano il cosmo all’interno della Liturgia. I principali sono evidentemente quelli dei Sacramenti: l’acqua, l’olio, il pane e il vino, che diventano vera e propria materia sacramentale, strumento attraverso cui si comunica la grazia di Cristo che giunge fino a noi. Nel caso della cenere si tratta invece di un segno non sacramentale, ma pur sempre legato alla preghiera e alla santificazione del Popolo cristiano: è prevista infatti, prima dell’imposizione individuale sul capo, una specifica benedizione delle ceneri – che faremo tra poco -, con due possibili formule. Nella prima esse sono definite «austero simbolo»; nella seconda si invoca direttamente su di esse la benedizione e si fa riferimento al testo del Libro della Genesi, che può anche accompagnare il gesto dell’imposizione: «Ricordati che sei polvere e in polvere tornerai» (cfr Gen 3,19).
Fermiamoci un momento su questo passo della Genesi. Esso conclude il giudizio pronunciato da Dio dopo il peccato originale: Dio maledice il serpente, che ha fatto cadere nel peccato l’uomo e la donna; poi punisce la donna annunciandole i dolori del parto e una relazione sbilanciata con il marito; infine punisce l’uomo, gli annuncia la fatica nel lavorare e maledice il suolo. «Maledetto il suolo per causa tua!» (Gen 3,17), a causa del tuo peccato. Dunque, l’uomo e la donna non sono maledetti direttamente come lo è invece il serpente, ma, a causa del peccato di Adamo, è maledetto il suolo, da cui egli era stato tratto. Rileggiamo il magnifico racconto della creazione dell’uomo dalla terra: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato» (Gen 2,7-8); così nel Libro della Genesi.
Ecco dunque che il segno della cenere ci riporta al grande affresco della creazione, in cui si dice che l’essere umano è una singolare unità di materia e di soffio divino, attraverso l’immagine della polvere del suolo plasmata da Dio e animata dal suo respiro insufflato nelle narici della nuova creatura. Possiamo osservare come nel racconto della Genesi il simbolo della polvere subisca una trasformazione negativa a causa del peccato. Mentre prima della caduta il suolo è una potenzialità totalmente buona, irrigata da una polla d’acqua (Gen 2,6) e capace, per l’opera di Dio, di germinare «ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare» (Gen 2,9), dopo la caduta e la conseguente maledizione divina esso produrrà «spine e cardi» e solo in cambio di «dolore» e «sudore del volto» concederà all’uomo i suoi frutti (cfr Gen 3,17-18). La polvere della terra non richiama più solo il gesto creatore di Dio, tutto aperto alla vita, ma diventa segno di un inesorabile destino di morte: «Polvere tu sei e in polvere ritornerai» (Gen 3,19).
E’ evidente nel testo biblico che la terra partecipa della sorte dell’uomo. Dice in proposito san Giovanni Crisostomo in una sua omelia: «Vedi come dopo la sua disobbedienza tutto viene imposto su di lui [l’uomo] in un modo contrario al suo precedente stile di vita» (Omelie sulla Genesi 17, 9:PG 53, 146). Questa maledizione del suolo ha una funzione medicinale per l’uomo, che dalle «resistenze» della terra dovrebbe essere aiutato a mantenersi nei suoi limiti e riconoscere la propria natura (cfr ibid.). Così, con una bella sintesi, si esprime un altro antico commento, che dice: «Adamo fu creato puro da Dio per il suo servizio. Tutte le creature gli furono concesse per servirlo. Egli era destinato ad essere il signore e re di tutte le creature. Ma quando il male giunse a lui e conversò con lui, egli lo ricevette per mezzo di un ascolto esterno. Poi penetrò nel suo cuore e si impadronì del suo intero essere. Quando così fu catturato, la creazione, che lo aveva assistito e servito, fu catturata con lui» (Pseudo-Macario, Omelie 11, 5: PG 34, 547).
Dicevamo poco fa, citando san Giovanni Crisostomo, che la maledizione del suolo ha una funzione «medicinale». Ciò significa che l’intenzione di Dio, che è sempre benefica, è più profonda della maledizione. Questa, infatti, è dovuta non a Dio ma al peccato, però Dio non può non infliggerla, perché rispetta la libertà dell’uomo e le sue conseguenze, anche negative. Dunque, all’interno della punizione, e anche all’interno della maledizione del suolo, permane una intenzione buona che viene da Dio. Quando Egli dice all’uomo: «Polvere tu sei e in polvere ritornerai!», insieme con la giusta punizione intende anche annunciare una via di salvezza, che passerà proprio attraverso la terra, attraverso quella «polvere», quella «carne» che sarà assunta dal Verbo. E’ in questa prospettiva salvifica che la parola della Genesi viene ripresa dalla Liturgia del Mercoledì delle Ceneri: come invito alla penitenza, all’umiltà, ad avere presente la propria condizione mortale, ma non per finire nella disperazione, bensì per accogliere, proprio in questa nostra mortalità, l’impensabile vicinanza di Dio, che, oltre la morte, apre il passaggio alla risurrezione, al paradiso finalmente ritrovato. In questo senso ci orienta un testo di Origene, che dice: «Ciò che inizialmente era carne, dalla terra, un uomo di polvere (cfr 1 Cor 15,47), e fu dissolto attraverso la morte e di nuovo reso polvere e cenere – infatti è scritto: sei polvere, e nella polvere ritornerai – viene fatto risorgere di nuovo dalla terra. In seguito, secondo i meriti dell’anima che abita il corpo, la persona avanza verso la gloria di un corpo spirituale» (Sui Princìpi 3, 6, 5: Sch, 268, 248).
I «meriti dell’anima», di cui parla Origene, sono necessari; ma fondamentali sono i meriti di Cristo, l’efficacia del suo Mistero pasquale. San Paolo ce ne ha offerto una formulazione sintetica nella Seconda Lettera ai Corinzi, oggi seconda Lettura: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2 Cor 5,21). La possibilità per noi del perdono divino dipende essenzialmente dal fatto che Dio stesso, nella persona del suo Figlio, ha voluto condividere la nostra condizione, ma non la corruzione del peccato. E il Padre lo ha risuscitato con la potenza del suo Santo Spirito e Gesù, il nuovo Adamo, è diventato, come dice san Paolo, «spirito datore di vita» (1 Cor 15,45), la primizia della nuova creazione. Lo stesso Spirito che ha risuscitato Gesù dai morti può trasformare i nostri cuori da cuori di pietra in cuori di carne (cfr Ez 36,26). Lo abbiamo invocato poco fa con il Salmo Miserere: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, / rinnova in me uno spirito saldo. / Non scacciarmi dalla tua presenza / e non privarmi del tuo santo spirito» (Sal 50,12-13). Quel Dio che scacciò i progenitori dall’Eden, ha mandato il proprio Figlio nella nostra terra devastata dal peccato, non lo ha risparmiato, affinché noi, figli prodighi, possiamo ritornare, pentiti e redenti dalla sua misericordia, nella nostra vera patria. Così sia, per ciascuno di noi, per tutti i credenti, per ogni uomo che umilmente si riconosce bisognoso di salvezza. Amen.
pope Joseph Ratzinger has also wanted to introduce Lent with a twofold "lectio divina." He gave the first to the seminarians of Rome:
The second to the priests of his diocese:
Cari fratelli,
è per me una grande gioia vedere ogni anno, all’inizio della Quaresima, il mio clero, il clero di Roma, ed è bello per me vedere oggi come siamo numerosi. Io pensavo che in questa grande aula saremmo stati un gruppo quasi perso, ma vedo che siamo un forte esercito di Dio e possiamo con forza entrare in questo nostro tempo, nelle battaglie necessarie per promuovere, per far andare avanti il Regno di Dio. Siamo entrati ieri per la porta della Quaresima, rinnovamento annuale del nostro Battesimo; ripetiamo quasi il nostro catecumenato, andando di nuovo nella profondità del nostro essere battezzati, riprendendo, ritornando al nostro essere battezzati e così incorporati in Cristo. In questo modo, possiamo anche cercare di guidare le nostre comunità nuovamente in questa comunione intima con la morte e risurrezione di Cristo, divenire sempre più conformi a Cristo, divenire sempre più realmente cristiani.
Il brano della Lettera di san Paolo agli Efesini che abbiamo ascoltato (4,1-16) è uno dei grandi testi ecclesiali del Nuovo Testamento. Comincia con l’autopresentazione dell’autore: «Io Paolo, prigioniero a motivo del Signore» (v. 1). La parola greca desmios dice «incatenato»: Paolo, come un criminale, è in catene, incatenato per Cristo e così inizia nella comunione con la passione di Cristo. Questo è il primo elemento dell’autopresentazione: egli parla incatenato, parla nella comunione della passione di Cristo e così sta in comunione anche con la risurrezione di Cristo, con la sua nuova vita. Sempre noi, quando parliamo, dobbiamo parlare in comunione con la sua passione e anche accettare le nostre passioni, le nostre sofferenze e prove, in questo senso: sono proprio prove della presenza di Cristo, che Lui è con noi e che andiamo, in comunione alla sua passione, verso la novità della vita, verso la risurrezione. «Incatenato», quindi, è prima una parola della teologia della croce, della comunione necessaria di ogni evangelizzatore, di ogni Pastore con il Pastore supremo, che ci ha redenti «dandosi», soffrendo per noi. L’amore è sofferenza, è un darsi, è un perdersi, e proprio in questo modo è fecondo. Ma così, nell’elemento esteriore delle catene, della libertà non più presente, appare e traspare anche un altro aspetto: la vera catena che lega Paolo a Cristo è la catena dell’amore. «Incatenato per amore»: un amore che dà libertà, un amore che lo fa capace di rendere presente il Messaggio di Cristo e Cristo stesso. E questo dovrebbe essere, anche per noi tutti, l’ultima catena che ci libera, collegati con la catena dell’amore a Cristo. Così troviamo la libertà e la vera strada della vita, e possiamo, con l’amore di Cristo, guidare a questo amore, che è la gioia, la libertà, anche gli uomini affidatici.
E poi dice «Esorto» (Ef 4,1): è il suo compito quello di esortare, ma non è un ammonimento moralistico. Esorto dalla comunione con Cristo; è Cristo stesso, ultimamente, che esorta, che invita con l’amore di un padre e di una madre. «Comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto» (v. 1); cioè, primo elemento: abbiamo ricevuto una chiamata. Io non sono anonimo o senza senso nel mondo: c’è una chiamata, c’è una voce che mi ha chiamato, una voce che seguo. E la mia vita dovrebbe essere un entrare sempre più profondamente nel cammino della chiamata, seguire questa voce e così trovare la vera strada e guidare gli altri su questa strada.
Sono «chiamato con una chiamata». Direi che abbiamo la grande prima chiamata del Battesimo, di essere con Cristo; la seconda grande chiamata di essere Pastori al suo servizio, e dobbiamo essere sempre più in ascolto di questa chiamata, in modo da poter chiamare o meglio aiutare anche altri affinché sentano la voce del Signore che chiama. La grande sofferenza della Chiesa di oggi nell’Europa e nell’Occidente è la mancanza di vocazioni sacerdotali, ma il Signore chiama sempre, manca l’ascolto. Noi abbiamo ascoltato la sua voce e dobbiamo essere attenti alla voce del Signore anche per altri, aiutare perché ci sia ascolto, e così sia accettata la chiamata, si apra una strada della vocazione ad essere Pastori con Cristo. San Paolo ritorna su questa parola «chiamata» alla fine di questo primo capoverso, e parla di una vocazione, di una chiamata che è alla speranza - la chiamata stessa è una speranza – e così dimostra le dimensioni della chiamata: non è solo individuale, la chiamata è già un fenomeno dialogico, un fenomeno nel «noi»; nell’«io e tu» e nel «noi». «Chiamata alla speranza». Vediamo così le dimensioni della chiamata; esse sono tre. Chiamata, ultimamente, secondo questo testo, verso Dio. Dio è la fine; alla fine arriviamo semplicemente in Dio e tutto il cammino è un cammino verso Dio. Ma questo cammino verso Dio non è mai isolato, un cammino solo nell’«io», è un cammino verso il futuro, verso il rinnovamento del mondo, e un cammino nel «noi» dei chiamati che chiama altri, fa ascoltare loro questa chiamata. Perciò la chiamata è sempre anche una vocazione ecclesiale. Essere fedeli alla chiamata del Signore implica scoprire questo «noi» nel quale e per il quale siamo chiamati, come pure andare insieme e realizzare le virtù necessarie. La «chiamata» implica l’ecclesialità, implica quindi la dimensione verticale e orizzontale, che vanno inscindibilmente insieme, implica ecclesialità nel senso di lasciarci aiutare per il «noi» e di costruire questo «noi» della Chiesa. In tale senso, san Paolo illustra la chiamata con questa finalità: un Dio unico, solo, ma con questa direzione verso il futuro; la speranza è nel «noi» di quelli che hanno la speranza, che amano all’interno della speranza, con alcune virtù che sono proprio gli elementi dell’andare insieme.
La prima è: «con ogni umiltà» (Ef 4,2). Vorrei soffermarmi un po’ di più su questa perché è una virtù che nel catalogo delle virtù precristiane non appare; è una virtù nuova, la virtù della sequela di Cristo. Pensiamo alla Lettera ai Filippesi, al capitolo due: Cristo, essendo uguale a Dio, si è umiliato, accettando forma di servo e obbedendo fino alla croce (cfr Fil 2,6-8). Questo è il cammino dell’umiltà del Figlio che noi dobbiamo imitare. Seguire Cristo vuol dire entrare in questo cammino dell’umiltà. Il testo greco dice tapeinophrosyne (cfr Ef 4,2): non pensare in grande di se stessi, avere la misura giusta. Umiltà. Il contrario dell’umiltà è la superbia, come la radice di tutti i peccati. La superbia che è arroganza, che vuole soprattutto potere, apparenza, apparire agli occhi degli altri, essere qualcuno o qualcosa, non ha l’intenzione di piacere a Dio, ma di piacere a se stessi, di essere accettati dagli altri e – diciamo – venerati dagli altri. L’«io» al centro del mondo: si tratta del mio io superbo, che sa tutto. Essere cristiano vuol dire superare questa tentazione originaria, che è anche il nucleo del peccato originale: essere come Dio, ma senza Dio; essere cristiano è essere vero, sincero, realista. L’umiltà è soprattutto verità, vivere nella verità, imparare la verità, imparare che la mia piccolezza è proprio la grandezza, perché così sono importante per il grande tessuto della storia di Dio con l’umanità. Proprio riconoscendo che io sono un pensiero di Dio, della costruzione del suo mondo, e sono insostituibile, proprio così, nella mia piccolezza, e solo in questo modo, sono grande. Questo è l’inizio dell’essere cristiano: è vivere la verità. E solo vivendo la verità, il realismo della mia vocazione per gli altri, con gli altri, nel corpo di Cristo, vivo bene. Vivere contro la verità è sempre vivere male. Viviamo la verità! Impariamo questo realismo: non voler apparire, ma voler piacere a Dio e fare quanto Dio ha pensato di me e per me, e così accettare anche l’altro. L’accettare l’altro, che forse è più grande di me, suppone proprio questo realismo e l’amore della verità; suppone accettare me stesso come «pensiero di Dio», così come sono, nei miei limiti e, in questo modo, nella mia grandezza. Accettare me stesso e accettare l’altro vanno insieme: solo accettando me stesso nel grande tessuto divino posso accettare anche gli altri, che formano con me la grande sinfonia della Chiesa e della creazione. Io penso che le piccole umiliazioni, che giorno per giorno dobbiamo vivere, sono salubri, perché aiutano ognuno a riconoscere la propria verità ed essere così liberi da questa vanagloria che è contro la verità e non mi può rendere felice e buono. Accettare e imparare questo, e così imparare ad accettare la mia posizione nella Chiesa, il mio piccolo servizio come grande agli occhi di Dio. E proprio questa umiltà, questo realismo, rende liberi. Se sono arrogante, se sono superbo, vorrei sempre piacere e se non ci riesco sono misero, sono infelice e devo sempre cercare questo piacere. Quando invece sono umile ho la libertà anche di essere in contrasto con un’opinione prevalente, con pensieri di altri, perché l’umiltà mi dà la capacità, la libertà della verità. E così, direi, preghiamo il Signore perché ci aiuti, ci aiuti ad essere realmente costruttori della comunità della Chiesa; che cresca, che noi stessi cresciamo nella grande visione di Dio, del «noi», e siamo membra del Corpo di Cristo, appartenente così, in unità, al Figlio di Dio.
La seconda virtù - ma siamo più brevi – è la «dolcezza», dice la traduzione italiana (Ef 4,2), in greco è praus, cioè «mite, mansueto»; e anche questa è una virtù cristologica come l’umiltà, che è seguire Cristo su questa strada della umiltà. Così anche praus, essere mite, essere mansueto, è sequela di Cristo che dice: Venite da me, io sono mite di cuore (cfr Mt 11,29). Questo non vuol dire debolezza. Cristo può essere anche duro, se necessario, ma sempre con un cuore buono, rimane sempre visibile la bontà, la mansuetudine. Nella Sacra Scrittura, qualche volta, «i mansueti» è semplicemente il nome dei credenti, del piccolo gregge dei poveri che, in tutte le prove, rimangono umili e fermi nella comunione del Signore: cercare questa mitezza, che è il contrario della violenza. La terza beatitudine. Il Vangelo di san Matteo dice: felici i mansueti, perché possederanno la terra (cfr Mt 5,5). Non i violenti possiedono la terra, alla fine rimangono i mansueti: essi hanno la grande promessa, e così noi dobbiamo essere proprio sicuri della promessa di Dio, della mitezza che è più forte della violenza. In questa parola della mansuetudine si nasconde il contrasto con la violenza: i cristiani sono i non violenti, sono gli oppositori della violenza.
E san Paolo prosegue: «con magnanimità» (Ef 4,2): Dio è magnanimo. Nonostante le nostre debolezze e i nostri peccati, sempre di nuovo comincia con noi. Mi perdona, anche se sa che domani cadrò di nuovo nel peccato; distribuisce i suoi doni, anche se sa che siamo spesso amministratori insufficienti. Dio è magnanimo, di grande cuore, ci affida la sua bontà. E questa magnanimità, questa generosità fa parte proprio della sequela di Cristo, di nuovo.
Infine, «sopportandovi a vicenda nell’amore» (Ef 4,2); mi sembra che proprio dall’umiltà segua questa capacità di accettare l’altro. L’alterità dell’altro è sempre un peso. Perché l’altro è diverso? Ma proprio questa diversità, questa alterità è necessaria per la bellezza della sinfonia di Dio. E dobbiamo, proprio con l’umiltà nella quale riconosco i miei limiti, la mia alterità nel confronto con l’altro, il peso che io sono per l’altro, divenire capaci non solo di sopportare l’altro, ma, con amore, trovare proprio nell’alterità anche la ricchezza del suo essere e delle idee e della fantasia di Dio.
Tutto questo, quindi, serve come virtù ecclesiale alla costruzione del Corpo di Cristo, che è lo Spirito di Cristo, perché divenga di nuovo esempio, di nuovo corpo, e cresca. Paolo lo dice poi in concreto, affermando che tutta questa varietà dei doni, dei temperamenti, dell’essere uomo, serve per l’unità (cfr Ef 4,11-13). Tutte queste virtù sono anche virtù dell’unità. Per esempio, per me è molto significativo che la prima Lettera dopo il Nuovo Testamento, la Prima Lettera di Clemente, sia indirizzata ad una comunità, quella dei Corinzi, divisa e sofferente per la divisione (cfr PG 1, 201-328). In questa Lettera, proprio la parola «umiltà» è una parola chiave: sono divisi perché manca l’umiltà, l’assenza dell’umiltà distrugge l’unità. L’umiltà è una fondamentale virtù dell’unità e solo così cresce l’unità del Corpo di Cristo, diventiamo realmente uniti e riceviamo la ricchezza e la bellezza dell’unità. Perciò è logico che l’elenco di queste virtù, che sono virtù ecclesiali, cristologiche, virtù dell’unità, vada verso l’unità esplicita: «un solo Signore, una sola fede, un solo Battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti» (Ef 4,5). Una sola fede e un solo Battesimo, come realtà concreta della Chiesa che sta sotto l’unico Signore.
Battesimo e fede sono inseparabili. Il Battesimo è il Sacramento della fede e la fede ha un duplice aspetto. E’ un atto profondamente personale: io conosco Cristo, mi incontro con Cristo e do fiducia a Lui. Pensiamo alla donna che tocca il suo vestito nella speranza di essere salvata (cfr Mt 9, 20-21); si affida a Lui totalmente e il Signore dice: Sei salva, perché hai creduto (cfr Mt 9, 22). Anche ai lebbrosi, all’unico che ritorna, dice: La tua fede ti ha salvato (cfr Lc 17, 19). Quindi la fede inizialmente è soprattutto un incontro personale, un toccare il vestito di Cristo, un essere toccato da Cristo, essere in contatto con Cristo, affidarsi al Signore, avere e trovare l’amore di Cristo e, nell’amore di Cristo, la chiave anche della verità, dell’universalità. Ma proprio per questo, perché chiave dell’universalità dell’unico Signore, tale fede non è solo un atto personale di fiducia, ma un atto che ha un contenuto. La fides qua esige la fides quae, il contenuto della fede, e il Battesimo esprime questo contenuto: la formula trinitaria è l’elemento sostanziale del credo dei cristiani. Esso, di per sé, è un «sì» a Cristo, e così al Dio Trinitario, con questa realtà, con questo contenuto che mi unisce a questo Signore, a questo Dio, che ha questo Volto: vive come Figlio del Padre nell’unità dello Spirito Santo e nella comunione del Corpo di Cristo. Quindi, questo mi sembra molto importante: la fede ha un contenuto e non è sufficiente, non è un elemento di unificazione se non c’è e non viene vissuto e confessato questo contenuto della unica fede.
Perciò, «Anno della Fede», Anno del Catechismo - per essere molto pratico - sono collegati imprescindibilmente. Rinnoveremo il Concilio solo rinnovando il contenuto - condensato poi di nuovo - del Catechismo della Chiesa Cattolica. E un grande problema della Chiesa attuale è la mancanza di conoscenza della fede, è l’«analfabetismo religioso», come hanno detto i Cardinali venerdì scorso circa questa realtà. «Analfabetismo religioso»; e con questo analfabetismo non possiamo crescere, non può crescere l’unità. Perciò dobbiamo noi stessi appropriarci di nuovo di questo contenuto, come ricchezza dell’unità e non come un pacchetto di dogmi e di comandamenti, ma come una realtà unica che si rivela nella sua profondità e bellezza. Dobbiamo fare il possibile per un rinnovamento catechistico, perché la fede sia conosciuta e così Dio sia conosciuto, Cristo sia conosciuto, la verità sia conosciuta e cresca l’unità nella verità.
Poi tutte queste unità finiscono nel: «un solo Dio e Padre di tutti». Tutto quanto non è umiltà, tutto quanto non è fede comune, distrugge l’unità, distrugge la speranza e rende invisibile il Volto di Dio. Dio è Uno e Unico. Il monoteismo era il grande privilegio di Israele, che ha conosciuto l’unico Dio, e rimane elemento costitutivo della fede cristiana. Il Dio Trinitario - lo sappiamo - non sono tre divinità, ma è un unico Dio; e vediamo meglio che cosa voglia dire unità: unità è unità dell’amore. E’ così: proprio perché è il circolo di amore, Dio è Uno e Unico.
Per Paolo, come abbiamo visto, l’unità di Dio si identifica con la nostra speranza. Perché? In che modo? Perché l’unità di Dio è speranza, perché questa ci garantisce che, alla fine, non ci sono diversi poteri, alla fine non c’è dualismo tra poteri diversi e contrastanti, alla fine non rimane il capo del drago che si potrebbe levare contro Dio, non rimane la sporcizia del male e del peccato. Alla fine rimane solo la luce! Dio è unico ed è l’unico Dio: non c’è altro potere contro di Lui! Sappiamo che oggi, con i mali che viviamo nel mondo sempre più crescenti, molti dubitano dell’Onnipotenza di Dio; anzi diversi teologi – anche buoni – dicono che Dio non sarebbe Onnipotente, perché non sarebbe compatibile con l’onnipotenza quanto vediamo nel mondo; e così essi vogliono creare una nuova apologia, scusare Dio e «discolpare» Dio da questi mali. Ma questo non è il modo giusto, perché se Dio non è Onnipotente, se ci sono e rimangono altri poteri, non è veramente Dio e non è speranza, perché alla fine rimarrebbe il politeismo, alla fine rimarrebbe la lotta, il potere del male. Dio è Onnipotente, l’unico Dio. Certo, nella storia si è dato un limite alla sua onnipotenza, riconoscendo la nostra libertà. Ma alla fine tutto ritorna e non rimane altro potere; questa è la speranza: che la luce vince, l’amore vince! Alla fine non rimane la forza del male, rimane solo Dio! E così siamo nel cammino della speranza, camminando verso l’unità dell’unico Dio, rivelatosi per lo Spirito Santo, nell’Unico Signore, Cristo.
Poi da questa grande visione, san Paolo scende un po’ ai dettagli e dice di Cristo: «Asceso in alto ha portato con sé i prigionieri, ha distribuito doni agli uomini» (Ef 4,8). L’Apostolo cita il Salmo 68, che descrive in modo poetico la salita di Dio con l’Arca dell’Alleanza verso le altezze, verso la cima del Monte Sion, verso il tempio: Dio come vincitore che ha superato gli altri, che sono prigionieri, e, come un vero vincitore, distribuisce doni. Il Giudaismo ha visto in questo piuttosto un’immagine di Mosé, che sale verso il Monte Sinai per ricevere nell’altezza la volontà di Dio, i Comandamenti, non considerati come peso, ma come il dono di conoscere il Volto di Dio, la volontà di Dio. Paolo, alla fine, vede qui un’immagine dell’ascesa di Cristo che sale in alto dopo essere sceso; sale e tira l’umanità verso Dio, fà posto per la carne e il sangue in Dio stesso; ci tira verso l’altezza del suo essere Figlio e ci libera dalla prigionia del peccato, ci rende liberi perché vincitore. Essendo vincitore, Egli distribuisce i doni. E così siamo arrivati dall’ascesa di Cristo alla Chiesa. I doni sono la charis come tale, la grazia: essere nella grazia, nell’amore di Dio. E poi i carismi che concretizzano la charis nelle singole funzioni e missioni: apostoli, profeti, evangelisti, pastori e maestri per edificare così il Corpo di Cristo (cfr Ef 4,11).
Non vorrei entrare adesso in un’esegesi dettagliata. E’ molto discusso qui che cosa voglia dire apostoli, profeti… In ogni caso, possiamo dire che la Chiesa è costruita sul fondamento della fede apostolica, che rimane sempre presente: gli Apostoli, nella successione apostolica, sono presenti nei Pastori, che siamo noi, per la grazia di Dio e nonostante tutta la nostra povertà. E siamo grati a Dio che ci ha voluto chiamare per stare nella successione apostolica e continuare ad edificare il Corpo di Cristo. Qui appare un elemento che mi sembra importante: i ministeri – i cosiddetti ministeri – sono chiamati «doni di Cristo», sono carismi; cioè, non c’è questa opposizione: da una parte il ministero, come una cosa giuridica, e dall’altra i carismi, come dono profetico, vivace, spirituale, come presenza dello Spirito e la sua novità. No! Proprio i ministeri sono dono del Risorto e sono carismi, sono articolazioni della sua grazia; uno non può essere sacerdote senza essere carismatico. E’ un carisma essere sacerdote. Questo - mi sembra - dobbiamo tenerlo presente: essere chiamato al sacerdozio, essere chiamato con un dono del Signore, con un carisma del Signore. E così, ispirati dal suo Spirito, dobbiamo cercare di vivere questo nostro carisma. Solo in questo modo penso si possa capire che la Chiesa in Occidente ha collegato inscindibilmente sacerdozio e celibato: essere in un’esistenza escatologica verso l’ultima destinazione della nostra speranza, verso Dio. Proprio perché il sacerdozio è un carisma e deve essere anche collegato con un carisma: se non fosse questo e fosse solamente una cosa giuridica, sarebbe assurdo imporre un carisma, che è un vero carisma; ma se il sacerdozio stesso è carisma, è normale che conviva con il carisma, con lo stato carismatico della vita escatologica.
Preghiamo il Signore perché ci aiuti a capire sempre di più questo, a vivere sempre più nel carisma dello Spirito Santo e a vivere così anche questo segno escatologico della fedeltà al Signore Unico, che proprio per il nostro tempo è necessario, con la decomposizione del matrimonio e della famiglia, che possono comporsi solo nella luce di questa fedeltà all’unica chiamata del Signore.
Un ultimo punto. San Paolo parla della crescita dell’uomo perfetto, che raggiunge la misura della pienezza di Cristo: non saremo più fanciulli in balia delle onde, trasportati da qualsiasi vento di dottrina (cfr Ef 4,13-14). «Al contrario, agendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa, tendendo a Lui» (Ef 4,15). Non si può vivere in una fanciullezza spirituale, in una fanciullezza di fede: purtroppo, in questo nostro mondo, vediamo questa fanciullezza. Molti, oltre la prima catechesi, non sono più andati avanti; forse è rimasto questo nucleo, forse si è anche distrutto. E del resto, essi sono sulle onde del mondo e nient’altro; non possono, come adulti, con competenza e con convinzione profonda, esporre e rendere presente la filosofia della fede - per così dire - la grande saggezza, la razionalità della fede, che apre gli occhi anche degli altri, che apre gli occhi proprio su quanto è buono e vero nel mondo. Manca questo essere adulti nella fede e rimane la fanciullezza nella fede.
Certo, in questi ultimi decenni, abbiamo vissuto anche un altro uso della parola «fede adulta». Si parla di «fede adulta», cioè emancipata dal Magistero della Chiesa. Fino a quando sono sotto la madre, sono fanciullo, devo emanciparmi; emancipato dal Magistero, sono finalmente adulto. Ma il risultato non è una fede adulta, il risultato è la dipendenza dalle onde del mondo, dalle opinioni del mondo, dalla dittatura dei mezzi di comunicazione, dall’opinione che tutti pensano e vogliono. Non è vera emancipazione, l’emancipazione dalla comunione del Corpo di Cristo! Al contrario, è cadere sotto la dittatura delle onde, del vento del mondo. La vera emancipazione è proprio liberarsi da questa dittatura, nella libertà dei figli di Dio che credono insieme nel Corpo di Cristo, con il Cristo Risorto, e vedono così la realtà, e sono capaci di rispondere alle sfide del nostro tempo.
Mi sembra che dobbiamo pregare molto il Signore, perché ci aiuti ad essere emancipati in questo senso, liberi in questo senso, con una fede realmente adulta, che vede, fa vedere e può aiutare anche gli altri ad arrivare alla vera perfezione, alla vera età adulta, in comunione con Cristo.
In questo contesto c’è la bella espressione dell’aletheuein en te agape, essere veri nella carità, vivere la verità, essere verità nella carità: i due concetti vanno insieme. Oggi il concetto di verità è un po’ sotto sospetto perché si combina verità con violenza. Purtroppo nella storia ci sono stati anche episodi dove si cercava di difendere la verità con la violenza. Ma le due sono contrarie. La verità non si impone con altri mezzi, se non da se stessa! La verità può arrivare solo tramite se stessa, la propria luce. Ma abbiamo bisogno della verità; senza verità non conosciamo i veri valori e come potremo ordinare il kosmos dei valori? Senza verità siamo ciechi nel mondo, non abbiamo strada. Il grande dono di Cristo è proprio che vediamo il Volto di Dio e, anche se in modo enigmatico, molto insufficiente, conosciamo il fondo, l’essenziale della verità in Cristo, nel suo Corpo. E conoscendo questa verità, cresciamo anche nella carità che è la legittimazione della verità e ci mostra che è verità. Direi proprio che la carità è il frutto della verità - l’albero si conosce dai frutti – e se non c’è carità, anche la verità non è propriamente appropriata, vissuta; e dove è la verità, nasce la carità. Grazie a Dio, lo vediamo in tutti i secoli: nonostante i fatti negativi, il frutto della carità è sempre stato presente nella cristianità e lo è oggi! Lo vediamo nei martiri, lo vediamo in tante suore, frati e sacerdoti che servono umilmente i poveri, i malati, che sono presenza della carità di Cristo. E così sono il grande segno che qui è la verità.
Preghiamo il Signore perché ci aiuti a portare il frutto della carità ed essere così testimoni della sua verità. Grazie.
The Lent of the Church: Either Supremacy or the Cross
A message, a catechesis, a twofold "lectio divina." These are the instructions of Benedict XVI for traversing the desert of the world and overcoming the temptations of power and success. Will he be heeded?
by Sandro Magister
by Sandro Magister
ROME, February 25, 2012 – As of tomorrow, it will be Lent for all. According to the Roman rite, this has already begun with Ash Wednesday, while according to the Ambrosian rite used in the archdiocese of Milan, which observes an older calendar, this dynamic period of the liturgical year begins on the sixth Sunday before Easter.
Dynamic period? In the widespread mentality of the West, Lent has been greatly weakened. More attention is given to the Muslim Ramadan.
But Benedict XVI is pushing, visibly, to restore meaning and vigor to this time of preparation for Easter.
This year, as in the two previous years, in addition to the traditional message to the faithful:
MESSAGE OF HIS HOLINESS
BENEDICT XVI
FOR LENT 2012
BENEDICT XVI
FOR LENT 2012
“Let us be concerned for each other,
to stir a response in love and good works” (Heb 10:24)
to stir a response in love and good works” (Heb 10:24)
Dear Brothers and Sisters,
The Lenten season offers us once again an opportunity to reflect upon the very heart of Christian life: charity. This is a favourable time to renew our journey of faith, both as individuals and as a community, with the help of the word of God and the sacraments. This journey is one marked by prayer and sharing, silence and fasting, in anticipation of the joy of Easter.
This year I would like to propose a few thoughts in the light of a brief biblical passage drawn from the Letter to the Hebrews:“ Let us be concerned for each other, to stir a response in love and good works”. These words are part of a passage in which the sacred author exhorts us to trust in Jesus Christ as the High Priest who has won us forgiveness and opened up a pathway to God. Embracing Christ bears fruit in a life structured by the three theological virtues: it means approaching the Lord “sincere in heart and filled with faith” (v. 22), keeping firm “in the hope we profess” (v. 23) and ever mindful of living a life of “love and good works” (v. 24) together with our brothers and sisters. The author states that to sustain this life shaped by the Gospel it is important to participate in the liturgy and community prayer, mindful of the eschatological goal of full communion in God (v. 25). Here I would like to reflect on verse 24, which offers a succinct, valuable and ever timely teaching on the three aspects of Christian life: concern for others, reciprocity and personal holiness.
1. “Let us be concerned for each other”: responsibility towards our brothers and sisters.
This first aspect is an invitation to be “concerned”: the Greek verb used here is katanoein, which means to scrutinize, to be attentive, to observe carefully and take stock of something. We come across this word in the Gospel when Jesus invites the disciples to “think of” the ravens that, without striving, are at the centre of the solicitous and caring Divine Providence (cf. Lk 12:24), and to “observe” the plank in our own eye before looking at the splinter in that of our brother (cf. Lk 6:41). In another verse of the Letter to the Hebrews, we find the encouragement to “turn your minds to Jesus” (3:1), the Apostle and High Priest of our faith. So the verb which introduces our exhortation tells us to look at others, first of all at Jesus, to be concerned for one another, and not to remain isolated and indifferent to the fate of our brothers and sisters. All too often, however, our attitude is just the opposite: an indifference and disinterest born of selfishness and masked as a respect for “privacy”. Today too, the Lord’s voice summons all of us to be concerned for one another. Even today God asks us to be “guardians” of our brothers and sisters (Gen 4:9), to establish relationships based on mutual consideration and attentiveness to the well-being, theintegral well-being of others. The great commandment of love for one another demands that we acknowledge our responsibility towards those who, like ourselves, are creatures and children of God. Being brothers and sisters in humanity and, in many cases, also in the faith, should help us to recognize in others a true alter ego, infinitely loved by the Lord. If we cultivate this way of seeing others as our brothers and sisters, solidarity, justice, mercy and compassion will naturally well up in our hearts. The Servant of God Pope Paul VI stated that the world today is suffering above all from a lack of brotherhood: “Human society is sorely ill. The cause is not so much the depletion of natural resources, nor their monopolistic control by a privileged few; it is rather the weakening of brotherly ties between individuals and nations” (Populorum Progressio, 66).
Concern for others entails desiring what is good for them from every point of view: physical, moral and spiritual. Contemporary culture seems to have lost the sense of good and evil, yet there is a real need to reaffirm that good does exist and will prevail, because God is “generous and acts generously” (Ps 119:68). The good is whatever gives, protects and promotes life, brotherhood and communion. Responsibility towards others thus means desiring and working for the good of others, in the hope that they too will become receptive to goodness and its demands. Concern for others means being aware of their needs. Sacred Scripture warns us of the danger that our hearts can become hardened by a sort of “spiritual anesthesia” which numbs us to the suffering of others. The Evangelist Luke relates two of Jesus’ parables by way of example. In the parable of the Good Samaritan, the priest and the Levite “pass by”, indifferent to the presence of the man stripped and beaten by the robbers (cf. Lk 10:30-32). In that of Dives and Lazarus, the rich man is heedless of the poverty of Lazarus, who is starving to death at his very door (cf. Lk 16:19). Both parables show examples of the opposite of “being concerned”, of looking upon others with love and compassion. What hinders this humane and loving gaze towards our brothers and sisters? Often it is the possession of material riches and a sense of sufficiency, but it can also be the tendency to put our own interests and problems above all else. We should never be incapable of “showing mercy” towards those who suffer. Our hearts should never be so wrapped up in our affairs and problems that they fail to hear the cry of the poor. Humbleness of heart and the personal experience of suffering can awaken within us a sense of compassion and empathy. “The upright understands the cause of the weak, the wicked has not the wit to understand it” (Prov 29:7). We can then understand the beatitude of “those who mourn” (Mt 5:5), those who in effect are capable of looking beyond themselves and feeling compassion for the suffering of others. Reaching out to others and opening our hearts to their needs can become an opportunity for salvation and blessedness.
“Being concerned for each other” also entails being concerned for their spiritual well-being. Here I would like to mention an aspect of the Christian life, which I believe has been quite forgotten:fraternal correction in view of eternal salvation. Today, in general, we are very sensitive to the idea of charity and caring about the physical and material well-being of others, but almost completely silent about our spiritual responsibility towards our brothers and sisters. This was not the case in the early Church or in those communities that are truly mature in faith, those which are concerned not only for the physical health of their brothers and sisters, but also for their spiritual health and ultimate destiny. The Scriptures tell us: “Rebuke the wise and he will love you for it. Be open with the wise, he grows wiser still, teach the upright, he will gain yet more” (Prov 9:8ff). Christ himself commands us to admonish a brother who is committing a sin (cf. Mt 18:15). The verb used to express fraternal correction - elenchein – is the same used to indicate the prophetic mission of Christians to speak out against a generation indulging in evil (cf. Eph 5:11). The Church’s tradition has included “admonishing sinners” among the spiritual works of mercy. It is important to recover this dimension of Christian charity. We must not remain silent before evil. I am thinking of all those Christians who, out of human regard or purely personal convenience, adapt to the prevailing mentality, rather than warning their brothers and sisters against ways of thinking and acting that are contrary to the truth and that do not follow the path of goodness. Christian admonishment, for its part, is never motivated by a spirit of accusation or recrimination. It is always moved by love and mercy, and springs from genuine concern for the good of the other. As the Apostle Paul says: “If one of you is caught doing something wrong, those of you who are spiritual should set that person right in a spirit of gentleness; and watch yourselves that you are not put to the test in the same way” (Gal 6:1). In a world pervaded by individualism, it is essential to rediscover the importance of fraternal correction, so that together we may journey towards holiness. Scripture tells us that even “the upright falls seven times” (Prov 24:16); all of us are weak and imperfect (cf. 1 Jn 1:8). It is a great service, then, to help others and allow them to help us, so that we can be open to the whole truth about ourselves, improve our lives and walk more uprightly in the Lord’s ways. There will always be a need for a gaze which loves and admonishes, which knows and understands, which discerns and forgives (cf. Lk 22:61), as God has done and continues to do with each of us.
2. “Being concerned for each other”: the gift of reciprocity.
This “custody” of others is in contrast to a mentality that, by reducing life exclusively to its earthly dimension, fails to see it in an eschatological perspective and accepts any moral choice in the name of personal freedom. A society like ours can become blind to physical sufferings and to the spiritual and moral demands of life. This must not be the case in the Christian community! The Apostle Paul encourages us to seek “the ways which lead to peace and the ways in which we can support one another” (Rom 14:19) for our neighbour’s good, “so that we support one another” (15:2), seeking not personal gain but rather “the advantage of everybody else, so that they may be saved” (1 Cor 10:33). This mutual correction and encouragement in a spirit of humility and charity must be part of the life of the Christian community.
The Lord’s disciples, united with him through the Eucharist, live in a fellowship that binds them one to another as members of a single body. This means that the other is part of me, and that his or her life, his or her salvation, concern my own life and salvation. Here we touch upon a profound aspect of communion: our existence is related to that of others, for better or for worse. Both our sins and our acts of love have a social dimension. This reciprocity is seen in the Church, the mystical body of Christ: the community constantly does penance and asks for the forgiveness of the sins of its members, but also unfailingly rejoices in the examples of virtue and charity present in her midst. As Saint Paul says: “Each part should be equally concerned for all the others” (1 Cor 12:25), for we all form one body. Acts of charity towards our brothers and sisters – as expressed by almsgiving, a practice which, together with prayer and fasting, is typical of Lent – is rooted in this common belonging. Christians can also express their membership in the one body which is the Church through concrete concern for the poorest of the poor. Concern for one another likewise means acknowledging the good that the Lord is doing in others and giving thanks for the wonders of grace that Almighty God in his goodness continuously accomplishes in his children. When Christians perceive the Holy Spirit at work in others, they cannot but rejoice and give glory to the heavenly Father (cf. Mt 5:16).
3. “To stir a response in love and good works”: walking together in holiness.
These words of the Letter to the Hebrews (10:24) urge us to reflect on the universal call to holiness, the continuing journey of the spiritual life as we aspire to the greater spiritual gifts and to an ever more sublime and fruitful charity (cf. 1 Cor 12:31-13:13). Being concerned for one another should spur us to an increasingly effective love which, “like the light of dawn, its brightness growing to the fullness of day” (Prov 4:18), makes us live each day as an anticipation of the eternal day awaiting us in God. The time granted us in this life is precious for discerning and performing good works in the love of God. In this way the Church herself continuously grows towards the full maturity of Christ (cf. Eph 4:13). Our exhortation to encourage one another to attain the fullness of love and good works is situated in this dynamic prospect of growth.
Sadly, there is always the temptation to become lukewarm, to quench the Spirit, to refuse to invest the talents we have received, for our own good and for the good of others (cf. Mt 25:25ff.). All of us have received spiritual or material riches meant to be used for the fulfilment of God’s plan, for the good of the Church and for our personal salvation (cf. Lk 12:21b; 1 Tim 6:18). The spiritual masters remind us that in the life of faith those who do not advance inevitably regress. Dear brothers and sisters, let us accept the invitation, today as timely as ever, to aim for the “high standard of ordinary Christian living” (Novo Millennio Ineunte, 31). The wisdom of the Church in recognizing and proclaiming certain outstanding Christians as Blessed and as Saints is also meant to inspire others to imitate their virtues. Saint Paul exhorts us to “anticipate one another in showing honour” (Rom 12:10).
In a world which demands of Christians a renewed witness of love and fidelity to the Lord, may all of us feel the urgent need to anticipate one another in charity, service and good works (cf. Heb 6:10). This appeal is particularly pressing in this holy season of preparation for Easter. As I offer my prayerful good wishes for a blessed and fruitful Lenten period, I entrust all of you to the intercession of Mary Ever Virgin and cordially impart my Apostolic Blessing.
From the Vatican, 3 November 2011
BENEDICTUS PP. XVI
in addition to the general audience of Ash Wednesday:
BENEDICT XVI
GENERAL AUDIENCE
Paul VI Audience HallWednesday, 22 February 2012
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Ash Wednesday
Dear Brothers and Sisters,
Today the Church celebrates Ash Wednesday, the beginning of her Lenten journey towards Easter. The entire Christian community is invited to live this period of forty days as a pilgrimage of repentance, conversion and renewal. In the Bible, the number forty is rich in symbolism. It recalls Israel’s journey in the desert, a time of expectation, purification and closeness to the Lord, but also a time of temptation and testing. It also evokes Jesus’ own sojourn in the desert at the beginning of his public ministry, a time of profound closeness to the Father in prayer, but also of confrontation with the mystery of evil. The Church’s Lenten discipline is meant to help deepen our life of faith and our imitation of Christ in his paschal mystery. In these forty days may we draw nearer to the Lord by meditating on his word and example, and conquer the desert of our spiritual aridity, selfishness and materialism. For the whole Church may this Lent be a time of grace in which God leads us, in union with the crucified and risen Lord, through the experience of the desert to the joy and hope brought by Easter.
* * *
I greet all the English-speaking visitors present at today’s Audience, especially those from England, Belgium, Norway, Canada and the United States. I offer a special welcome to the faithful of the Personal Ordinariate of Our Lady of Walsingham on the occasion of their pilgrimage to the See of Peter. I greet the pilgrim group from the Diocese of Antwerp, and I thank the choirs for their praise of God in song. With prayerful good wishes for a spiritually fruitful Lent, I invoke upon all of you God’s abundant blessings!
in addition to the homily for the Mass of the same day:
SANTA MESSA, BENEDIZIONE E IMPOSIZIONE DELLE CENERI
OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Basilica di Santa Sabina
Mercoledì delle Ceneri, 22 febbraio 2012
Mercoledì delle Ceneri, 22 febbraio 2012
[Video]
cari fratelli e sorelle!
Con questo giorno di penitenza e di digiuno – il Mercoledì delle Ceneri – iniziamo un nuovo cammino verso la Pasqua di Risurrezione: il cammino della Quaresima. Vorrei soffermarmi brevemente a riflettere sul segno liturgico della cenere, un segno materiale, un elemento della natura, che diventa nella Liturgia un simbolo sacro, molto importante in questa giornata che dà inizio all’itinerario quaresimale. Anticamente, nella cultura ebraica, l’uso di cospargersi il capo di cenere come segno di penitenza era comune, abbinato spesso al vestirsi di sacco o di stracci. Per noi cristiani, invece, vi è quest’unico momento, che ha peraltro una notevole rilevanza rituale e spirituale.
Anzitutto, la cenere è uno di quei segni materiali che portano il cosmo all’interno della Liturgia. I principali sono evidentemente quelli dei Sacramenti: l’acqua, l’olio, il pane e il vino, che diventano vera e propria materia sacramentale, strumento attraverso cui si comunica la grazia di Cristo che giunge fino a noi. Nel caso della cenere si tratta invece di un segno non sacramentale, ma pur sempre legato alla preghiera e alla santificazione del Popolo cristiano: è prevista infatti, prima dell’imposizione individuale sul capo, una specifica benedizione delle ceneri – che faremo tra poco -, con due possibili formule. Nella prima esse sono definite «austero simbolo»; nella seconda si invoca direttamente su di esse la benedizione e si fa riferimento al testo del Libro della Genesi, che può anche accompagnare il gesto dell’imposizione: «Ricordati che sei polvere e in polvere tornerai» (cfr Gen 3,19).
Fermiamoci un momento su questo passo della Genesi. Esso conclude il giudizio pronunciato da Dio dopo il peccato originale: Dio maledice il serpente, che ha fatto cadere nel peccato l’uomo e la donna; poi punisce la donna annunciandole i dolori del parto e una relazione sbilanciata con il marito; infine punisce l’uomo, gli annuncia la fatica nel lavorare e maledice il suolo. «Maledetto il suolo per causa tua!» (Gen 3,17), a causa del tuo peccato. Dunque, l’uomo e la donna non sono maledetti direttamente come lo è invece il serpente, ma, a causa del peccato di Adamo, è maledetto il suolo, da cui egli era stato tratto. Rileggiamo il magnifico racconto della creazione dell’uomo dalla terra: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato» (Gen 2,7-8); così nel Libro della Genesi.
Ecco dunque che il segno della cenere ci riporta al grande affresco della creazione, in cui si dice che l’essere umano è una singolare unità di materia e di soffio divino, attraverso l’immagine della polvere del suolo plasmata da Dio e animata dal suo respiro insufflato nelle narici della nuova creatura. Possiamo osservare come nel racconto della Genesi il simbolo della polvere subisca una trasformazione negativa a causa del peccato. Mentre prima della caduta il suolo è una potenzialità totalmente buona, irrigata da una polla d’acqua (Gen 2,6) e capace, per l’opera di Dio, di germinare «ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare» (Gen 2,9), dopo la caduta e la conseguente maledizione divina esso produrrà «spine e cardi» e solo in cambio di «dolore» e «sudore del volto» concederà all’uomo i suoi frutti (cfr Gen 3,17-18). La polvere della terra non richiama più solo il gesto creatore di Dio, tutto aperto alla vita, ma diventa segno di un inesorabile destino di morte: «Polvere tu sei e in polvere ritornerai» (Gen 3,19).
E’ evidente nel testo biblico che la terra partecipa della sorte dell’uomo. Dice in proposito san Giovanni Crisostomo in una sua omelia: «Vedi come dopo la sua disobbedienza tutto viene imposto su di lui [l’uomo] in un modo contrario al suo precedente stile di vita» (Omelie sulla Genesi 17, 9:PG 53, 146). Questa maledizione del suolo ha una funzione medicinale per l’uomo, che dalle «resistenze» della terra dovrebbe essere aiutato a mantenersi nei suoi limiti e riconoscere la propria natura (cfr ibid.). Così, con una bella sintesi, si esprime un altro antico commento, che dice: «Adamo fu creato puro da Dio per il suo servizio. Tutte le creature gli furono concesse per servirlo. Egli era destinato ad essere il signore e re di tutte le creature. Ma quando il male giunse a lui e conversò con lui, egli lo ricevette per mezzo di un ascolto esterno. Poi penetrò nel suo cuore e si impadronì del suo intero essere. Quando così fu catturato, la creazione, che lo aveva assistito e servito, fu catturata con lui» (Pseudo-Macario, Omelie 11, 5: PG 34, 547).
Dicevamo poco fa, citando san Giovanni Crisostomo, che la maledizione del suolo ha una funzione «medicinale». Ciò significa che l’intenzione di Dio, che è sempre benefica, è più profonda della maledizione. Questa, infatti, è dovuta non a Dio ma al peccato, però Dio non può non infliggerla, perché rispetta la libertà dell’uomo e le sue conseguenze, anche negative. Dunque, all’interno della punizione, e anche all’interno della maledizione del suolo, permane una intenzione buona che viene da Dio. Quando Egli dice all’uomo: «Polvere tu sei e in polvere ritornerai!», insieme con la giusta punizione intende anche annunciare una via di salvezza, che passerà proprio attraverso la terra, attraverso quella «polvere», quella «carne» che sarà assunta dal Verbo. E’ in questa prospettiva salvifica che la parola della Genesi viene ripresa dalla Liturgia del Mercoledì delle Ceneri: come invito alla penitenza, all’umiltà, ad avere presente la propria condizione mortale, ma non per finire nella disperazione, bensì per accogliere, proprio in questa nostra mortalità, l’impensabile vicinanza di Dio, che, oltre la morte, apre il passaggio alla risurrezione, al paradiso finalmente ritrovato. In questo senso ci orienta un testo di Origene, che dice: «Ciò che inizialmente era carne, dalla terra, un uomo di polvere (cfr 1 Cor 15,47), e fu dissolto attraverso la morte e di nuovo reso polvere e cenere – infatti è scritto: sei polvere, e nella polvere ritornerai – viene fatto risorgere di nuovo dalla terra. In seguito, secondo i meriti dell’anima che abita il corpo, la persona avanza verso la gloria di un corpo spirituale» (Sui Princìpi 3, 6, 5: Sch, 268, 248).
I «meriti dell’anima», di cui parla Origene, sono necessari; ma fondamentali sono i meriti di Cristo, l’efficacia del suo Mistero pasquale. San Paolo ce ne ha offerto una formulazione sintetica nella Seconda Lettera ai Corinzi, oggi seconda Lettura: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2 Cor 5,21). La possibilità per noi del perdono divino dipende essenzialmente dal fatto che Dio stesso, nella persona del suo Figlio, ha voluto condividere la nostra condizione, ma non la corruzione del peccato. E il Padre lo ha risuscitato con la potenza del suo Santo Spirito e Gesù, il nuovo Adamo, è diventato, come dice san Paolo, «spirito datore di vita» (1 Cor 15,45), la primizia della nuova creazione. Lo stesso Spirito che ha risuscitato Gesù dai morti può trasformare i nostri cuori da cuori di pietra in cuori di carne (cfr Ez 36,26). Lo abbiamo invocato poco fa con il Salmo Miserere: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, / rinnova in me uno spirito saldo. / Non scacciarmi dalla tua presenza / e non privarmi del tuo santo spirito» (Sal 50,12-13). Quel Dio che scacciò i progenitori dall’Eden, ha mandato il proprio Figlio nella nostra terra devastata dal peccato, non lo ha risparmiato, affinché noi, figli prodighi, possiamo ritornare, pentiti e redenti dalla sua misericordia, nella nostra vera patria. Così sia, per ciascuno di noi, per tutti i credenti, per ogni uomo che umilmente si riconosce bisognoso di salvezza. Amen.
pope Joseph Ratzinger has also wanted to introduce Lent with a twofold "lectio divina." He gave the first to the seminarians of Rome:
"LECTIO DIVINA" OF HIS HOLINESS BENEDICT XVI
Seminary Chapel
Wednesday, 15 February 2012
Wednesday, 15 February 2012
[Video]
Your Eminence,
Dear Brothers in the Episcopate and in the Priesthood,
Dear Seminarians,
Dear Brothers and Sisters,
Dear Brothers in the Episcopate and in the Priesthood,
Dear Seminarians,
Dear Brothers and Sisters,
On the day of Our Lady of Trust, it gives me great joy to see my seminarians, the seminarians of Rome, on their way towards the priesthood and thus to see the Church of the future, the Church which is ever alive.
Today we have heard a text — we hear it and we meditate upon it — from the Letter to the Romans: Paul speaks to the Romans and therefore speaks to us, because he is speaking to Romans of all the epochs. This Letter is not only St Paul’s greatest, but it is also extraordinary because of its doctrinal and spiritual weight. And it is extraordinary because it is a letter written to a community he had neither founded nor even visited. He writes to announce his visit and express his desire to visit Rome, and he announces in advance the essential content of his kerygma; in this way he prepares the City for his visit. He writes to this community, with which he is not personally acquainted, because he is the Apostle to the Gentiles — of the transmission of the Gospel of the Jews to the Gentiles — and Rome is the capital of the Gentiles and hence the centre, and the destination of his message too.
The Gospel had to arrive here, so that it might really reach the pagan world. It was to arrive, but in a different way from that which he had imagined. Paul was to arrive in chains for Christ, and even in chains he would feel free to proclaim the Gospel.
In the first chapter of the Letter to the Romans, Paul also says: your faith, the faith of the Church of Rome, is proclaimed in all the world (cf. 1:8). What is memorable about the faith of this Church is that it is proclaimed throughout the world, and we can reflect on the situation today. Today too, a lot is said about the Church of Rome, many things, but let us hope that people are also talking about our faith, about the exemplary faith of this Church, and let us pray the Lord that we may ensure that they do not say many things but speak of the faith of the Church of Rome.
The text that was read (Rom 12:1-2), is the beginning of the fourth and last part of the Letter to the Romans and begins with the word “I appeal to you” (v. 1). It is usually said that it is a question of the moral part that follows the dogmatic part, but in St Paul’s thought and also in his language things cannot be divided in this manner: this word “appeal”, in Greek parakalo, contains within it the wordparaklesis — parakletos, it has a depth that goes far beyond morality; it is a term that certainly implies reproof, but also consolation, care for others, fatherly and indeed motherly tenderness; this word “mercy” — in Greek oiktirmon and in Hebrew rachamim, maternal womb — expresses the compassion, kindness and tenderness of a mother. And if Paul is making an appeal, all this is implicit: he speaks from the heart, he speaks with the tenderness of a father’s love and it is not only he who speaks. Paul says: “by the mercies of God” (v. 1): he makes himself an instrument of God’s words, an instrument of Christ’s words; Christ speaks to us with this tenderness, with this fatherly love, with this care for us. And so too he does not only appeal to our morality and our will, but also to the Grace that is in us, an appeal to us to let Grace act. It is, as it were, an action in which the Grace given at Baptism becomes active within us, it must be active within us; thus Grace, the gift of God, and our cooperation go hand in hand.
What is Paul appealing for in this regard? “Present your bodies as a living sacrifice, holy and acceptable to God” (v. 1). “Present your bodies”: he speaks of the liturgy, he speaks of God, of the priority of God but he does not speak of the liturgy as a ceremony, he speaks of the liturgy as life. We ourselves, our body; we in our body and as a body must be liturgy. This is the newness of the New Testament, and we shall see it again later: Christ offers himself and thereby replaces all the other sacrifices. And he wants “to draw” us into the communion of his Body. Our body, with his, becomes God’s glory, becomes liturgy. Hence this term “present” — in Greek parastesai — is not only an allegory; allegorically our life would also be a liturgy but, on the contrary, the true liturgy is that of our body, of our being in the Body of Christ, just as Christ himself made the liturgy of the world, the cosmic liturgy, which strives to draw all people to itself.
“In your body, present your body”: these words indicate man in his totality, indivisible — in the end — between soul and body, spirit and body; in the body we are ourselves and the body enlivened by the soul, the body itself, must be the realization of our worship. And we think — perhaps, I would say, each one of us should then reflect on these words — that our daily life in our body, in the small things, must be inspired, profuse, immersed in the divine reality, it must become action together with God. This does not mean that we must always be thinking of God, but that we must really be penetrated by the reality of God so that our whole life — and not only a few thoughts — may be a liturgy, may be adoration.
Then Paul tells us: “Present your bodies as a living sacrifice” (v. 1): the Greek term is logike latreiaand it then appears in the Roman Canon, in the First Eucharistic Prayer, “rationabile obsequium”. It is a new definition of worship but is prepared for both in the Old Testament and in Greek philosophy; they are two rivers — so to speak — that flow towards this point and converge in the new liturgy of Christians and of Christ. In the Old Testament: from the outset they understood that God did not need bulls, rams, and such things. In Psalm 50[49], God says: Do you think I eat the flesh of bulls or drink the blood of goats? I have no need of these things, I do not like them. I do not drink and eat these things. They are not a sacrifice for me. Sacrifice is praise of God, if you come to me it is thanksgiving to God (cf. vv. 13-15, 23). Thus the Old Testament route leads towards a point in which these external things, symbols and substitutions, disappear and man himself becomes praise of God.
The same happens in the world of Greek philosophy. Here too one understands increasingly that it is not possible to glorify God with these things — animals or offerings — but that only the “logos” of man, his reason having become the glory of God is really worship, and the idea is that man must come out of himself and unite with the “Logos”, with the great Reason of the world and thus truly be worship. However, here there is something missing: man, according to this philosophy, must — so to speak — leave his body, he must be spiritualized; only the spirit would be adoration. Christianity, on the contrary, is not simply spiritualization or moralization: it is incarnation, that is, Christ is the “Logos” he is the incarnate Word and he gathers all of us so that in him and with him, in his Body, as members of this Body, we really become a glorification of God.
Let us keep this in mind: on the one hand of course, to emerge from these material things for a more spiritual conception of the worship of God, but on the other to arrive at the incarnation of the spirit, to arrive at the point in which our body is assumed into the Body of Christ and our praise of God is not purely words, purely activities, but the reality of our whole life. I think that we must reflect on this and pray to God to help us so that his spirit may take flesh in us too, and our flesh may become full of God’s Spirit.
We also find the same reality in the fourth chapter of St John’s Gospel where the Lord says to the Samaritan woman: in the future people will not worship on this mountain or that, with one rite or another; but they will worship in spirit and in truth (cf. Jn 4:21-23). To come out of these carnal rites is of course spiritualization, but this spirit, this truth, is not any kind of abstract spirit: the spirit is the Holy Spirit, and the truth is Christ. Worshipping in spirit and truth really means to enter through the Holy Spirit into the Body of Christ, into the truth of being. And thus we become truth and we become a glorification of God. Becoming truth in Christ demands our total involvement.
And then let us continue: “Holy and acceptable to God, which is your spiritual worship” (Rom 12:1). The second verse: after this fundamental definition of our life as the liturgy of God, the incarnation of the Word in us, every day, with Christ — the Incarnate Word — St Paul continues: “Do not be conformed to this world but be transformed by the renewal of your mind” (v. 2). “Do not be conformed to this world”. There is the non-conformism of Christians who do not let themselves be conformed. This does not mean that we want to flee from the world, that the world does not interest us: on the contrary we want to transform ourselves and to let ourselves be transformed, thereby transforming the world. And we must bear in mind that in the New Testament, especially in the Gospel according to St John, the word “world” has two meanings and thus points to the problem and to the reality concerned. On one side is the “world” created by God, loved by God, to the point that he gives himself and his Son for this world; the world is a creature of God, God loves it and wants to give himself so that it may really be a creation and respond to his love. But there is also the other conception of the “world” kosmos houtos: the world that is in evil, that is in the power of evil, that reflects original sin. We see this power of evil today, for example, in two great powers which are useful and good in themselves but can easily be abused: the power of finance and the power of the media. Both are necessary, because they can be useful, but are so easy to abuse that they frequently convey the opposite of their true intentions.
We see that the world of finance can dominate the human being, that possessions and appearance dominate the world and enslave it. The world of finance is no longer an instrument to foster well-being, to foster human life, but becomes a power that oppresses it, that almost demands worship: “Mammon”, the real false divinity that dominates the world. To counter this conformism of submission to this power we must be non-conformist: “having” does not count, it is “being” that counts! Let us not submit to the former, let us use it as a means, but with the freedom of God’s children.
Then the other, the power of public opinion. Of course we need information, we need knowledge of world affairs, but then it can be a power of appearance; in the end, what is said counts more than the reality itself. An appearance is superimposed on reality, it becomes more important, and man no longer follows the truth of his being, but wishes above all to appear, to be in conformity with these realities. And Christian non-conformism is also against this: we do not always wish “to be conformed”, to be praised, we do not want appearances, but the truth, and this gives us freedom and true Christian freedom; in freeing ourselves from this need to please, to speak as the masses think we ought to, in order to have the freedom of truth and thus to recreate the world in such a way that it is not oppressed by opinion, by appearances which no longer allow the reality to emerge; the virtual world becomes more real, stronger, and the real world of God’s Creation is no longer seen. The non-conformism of the Christian redeems us, restores the truth to us. Let us pray the Lord that he help us to be free people in this non-conformism which is not against the world but is true love of the world.
And St Paul continues: “Be transformed by the renewal of your mind” (v. 2). Two very important words: “to transform”, from the Greek metamorphon, and “to renew”, in Greek anakainosis.Transforming ourselves, letting ourselves be transformed by the Lord into the form of the image of God, transforming ourselves every day anew, through his reality into the truth of our being. And “renewal”; this is the true novelty which does not subject us to opinions, to appearances, but to the Grace of God, to his revelation. Let us permit ourselves to be formed, to be molded, so that the image of God really appears in the human being.
“By the renewal”, St Paul says, in a way I find surprising, “of your mind”. Therefore this renewal, this transformation, begins with the renewal of thought. St Paul says “o nous”: our entire way of reasoning, reason itself must be renewed. Renewed not according to the usual categories but to renew means truly allowing ourselves to be illuminated by the Truth that speaks to us in the Word of God. And so, finally, to learn the new way of thinking, which is that way which does not obey power and possessing, appearances, etc., but obeys the truth of our being that dwells in our depths and that is given to us anew in Baptism.
“The renewal of your mind”; every day is a task proper to the process of studying theology, of preparing for the priesthood. Studying theology well, spiritually, thinking about it deeply, meditating on Scripture every day; this way of studying theology, listening to God himself who speaks to us is the way to the renewal of thought, to the transformation of our being and of the world. And lastly, “Let us do everything” according to Paul, “to be able to discern God’s will, what is good and acceptable and perfect” (cf. v. 2). Discerning God’s will: we can only learn this in a humble and obedient journey with the Word of God, with the Church, with the Sacraments, with meditation on Sacred Scripture. Knowing and discerning God’s will, all that is good. This is fundamental in our life.
Moreover on the day of Our Lady of Trust, we see in Our Lady the very reality of all this, the person who is really new, who is really transformed, who is really a living sacrifice. Our Lady sees the will of God, she lives in God’s will, she says “yes”, and this “yes” of Our Lady is the whole of her being and thus she shows us the way, she helps us.
Consequently on this day, let us pray to Our Lady who is the living icon of the new man. May she help us to transform, to let our being be transformed, to truly be new men, then later, if God wishes, to be Pastors of his Church. Many thanks.
The second to the priests of his diocese:
INCONTRO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
CON I PARROCI DI ROMA
CON I PARROCI DI ROMA
LECTIO DIVINA
Aula Paolo VI
Giovedì 23 febbraio 2012
Giovedì 23 febbraio 2012
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è per me una grande gioia vedere ogni anno, all’inizio della Quaresima, il mio clero, il clero di Roma, ed è bello per me vedere oggi come siamo numerosi. Io pensavo che in questa grande aula saremmo stati un gruppo quasi perso, ma vedo che siamo un forte esercito di Dio e possiamo con forza entrare in questo nostro tempo, nelle battaglie necessarie per promuovere, per far andare avanti il Regno di Dio. Siamo entrati ieri per la porta della Quaresima, rinnovamento annuale del nostro Battesimo; ripetiamo quasi il nostro catecumenato, andando di nuovo nella profondità del nostro essere battezzati, riprendendo, ritornando al nostro essere battezzati e così incorporati in Cristo. In questo modo, possiamo anche cercare di guidare le nostre comunità nuovamente in questa comunione intima con la morte e risurrezione di Cristo, divenire sempre più conformi a Cristo, divenire sempre più realmente cristiani.
Il brano della Lettera di san Paolo agli Efesini che abbiamo ascoltato (4,1-16) è uno dei grandi testi ecclesiali del Nuovo Testamento. Comincia con l’autopresentazione dell’autore: «Io Paolo, prigioniero a motivo del Signore» (v. 1). La parola greca desmios dice «incatenato»: Paolo, come un criminale, è in catene, incatenato per Cristo e così inizia nella comunione con la passione di Cristo. Questo è il primo elemento dell’autopresentazione: egli parla incatenato, parla nella comunione della passione di Cristo e così sta in comunione anche con la risurrezione di Cristo, con la sua nuova vita. Sempre noi, quando parliamo, dobbiamo parlare in comunione con la sua passione e anche accettare le nostre passioni, le nostre sofferenze e prove, in questo senso: sono proprio prove della presenza di Cristo, che Lui è con noi e che andiamo, in comunione alla sua passione, verso la novità della vita, verso la risurrezione. «Incatenato», quindi, è prima una parola della teologia della croce, della comunione necessaria di ogni evangelizzatore, di ogni Pastore con il Pastore supremo, che ci ha redenti «dandosi», soffrendo per noi. L’amore è sofferenza, è un darsi, è un perdersi, e proprio in questo modo è fecondo. Ma così, nell’elemento esteriore delle catene, della libertà non più presente, appare e traspare anche un altro aspetto: la vera catena che lega Paolo a Cristo è la catena dell’amore. «Incatenato per amore»: un amore che dà libertà, un amore che lo fa capace di rendere presente il Messaggio di Cristo e Cristo stesso. E questo dovrebbe essere, anche per noi tutti, l’ultima catena che ci libera, collegati con la catena dell’amore a Cristo. Così troviamo la libertà e la vera strada della vita, e possiamo, con l’amore di Cristo, guidare a questo amore, che è la gioia, la libertà, anche gli uomini affidatici.
E poi dice «Esorto» (Ef 4,1): è il suo compito quello di esortare, ma non è un ammonimento moralistico. Esorto dalla comunione con Cristo; è Cristo stesso, ultimamente, che esorta, che invita con l’amore di un padre e di una madre. «Comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto» (v. 1); cioè, primo elemento: abbiamo ricevuto una chiamata. Io non sono anonimo o senza senso nel mondo: c’è una chiamata, c’è una voce che mi ha chiamato, una voce che seguo. E la mia vita dovrebbe essere un entrare sempre più profondamente nel cammino della chiamata, seguire questa voce e così trovare la vera strada e guidare gli altri su questa strada.
Sono «chiamato con una chiamata». Direi che abbiamo la grande prima chiamata del Battesimo, di essere con Cristo; la seconda grande chiamata di essere Pastori al suo servizio, e dobbiamo essere sempre più in ascolto di questa chiamata, in modo da poter chiamare o meglio aiutare anche altri affinché sentano la voce del Signore che chiama. La grande sofferenza della Chiesa di oggi nell’Europa e nell’Occidente è la mancanza di vocazioni sacerdotali, ma il Signore chiama sempre, manca l’ascolto. Noi abbiamo ascoltato la sua voce e dobbiamo essere attenti alla voce del Signore anche per altri, aiutare perché ci sia ascolto, e così sia accettata la chiamata, si apra una strada della vocazione ad essere Pastori con Cristo. San Paolo ritorna su questa parola «chiamata» alla fine di questo primo capoverso, e parla di una vocazione, di una chiamata che è alla speranza - la chiamata stessa è una speranza – e così dimostra le dimensioni della chiamata: non è solo individuale, la chiamata è già un fenomeno dialogico, un fenomeno nel «noi»; nell’«io e tu» e nel «noi». «Chiamata alla speranza». Vediamo così le dimensioni della chiamata; esse sono tre. Chiamata, ultimamente, secondo questo testo, verso Dio. Dio è la fine; alla fine arriviamo semplicemente in Dio e tutto il cammino è un cammino verso Dio. Ma questo cammino verso Dio non è mai isolato, un cammino solo nell’«io», è un cammino verso il futuro, verso il rinnovamento del mondo, e un cammino nel «noi» dei chiamati che chiama altri, fa ascoltare loro questa chiamata. Perciò la chiamata è sempre anche una vocazione ecclesiale. Essere fedeli alla chiamata del Signore implica scoprire questo «noi» nel quale e per il quale siamo chiamati, come pure andare insieme e realizzare le virtù necessarie. La «chiamata» implica l’ecclesialità, implica quindi la dimensione verticale e orizzontale, che vanno inscindibilmente insieme, implica ecclesialità nel senso di lasciarci aiutare per il «noi» e di costruire questo «noi» della Chiesa. In tale senso, san Paolo illustra la chiamata con questa finalità: un Dio unico, solo, ma con questa direzione verso il futuro; la speranza è nel «noi» di quelli che hanno la speranza, che amano all’interno della speranza, con alcune virtù che sono proprio gli elementi dell’andare insieme.
La prima è: «con ogni umiltà» (Ef 4,2). Vorrei soffermarmi un po’ di più su questa perché è una virtù che nel catalogo delle virtù precristiane non appare; è una virtù nuova, la virtù della sequela di Cristo. Pensiamo alla Lettera ai Filippesi, al capitolo due: Cristo, essendo uguale a Dio, si è umiliato, accettando forma di servo e obbedendo fino alla croce (cfr Fil 2,6-8). Questo è il cammino dell’umiltà del Figlio che noi dobbiamo imitare. Seguire Cristo vuol dire entrare in questo cammino dell’umiltà. Il testo greco dice tapeinophrosyne (cfr Ef 4,2): non pensare in grande di se stessi, avere la misura giusta. Umiltà. Il contrario dell’umiltà è la superbia, come la radice di tutti i peccati. La superbia che è arroganza, che vuole soprattutto potere, apparenza, apparire agli occhi degli altri, essere qualcuno o qualcosa, non ha l’intenzione di piacere a Dio, ma di piacere a se stessi, di essere accettati dagli altri e – diciamo – venerati dagli altri. L’«io» al centro del mondo: si tratta del mio io superbo, che sa tutto. Essere cristiano vuol dire superare questa tentazione originaria, che è anche il nucleo del peccato originale: essere come Dio, ma senza Dio; essere cristiano è essere vero, sincero, realista. L’umiltà è soprattutto verità, vivere nella verità, imparare la verità, imparare che la mia piccolezza è proprio la grandezza, perché così sono importante per il grande tessuto della storia di Dio con l’umanità. Proprio riconoscendo che io sono un pensiero di Dio, della costruzione del suo mondo, e sono insostituibile, proprio così, nella mia piccolezza, e solo in questo modo, sono grande. Questo è l’inizio dell’essere cristiano: è vivere la verità. E solo vivendo la verità, il realismo della mia vocazione per gli altri, con gli altri, nel corpo di Cristo, vivo bene. Vivere contro la verità è sempre vivere male. Viviamo la verità! Impariamo questo realismo: non voler apparire, ma voler piacere a Dio e fare quanto Dio ha pensato di me e per me, e così accettare anche l’altro. L’accettare l’altro, che forse è più grande di me, suppone proprio questo realismo e l’amore della verità; suppone accettare me stesso come «pensiero di Dio», così come sono, nei miei limiti e, in questo modo, nella mia grandezza. Accettare me stesso e accettare l’altro vanno insieme: solo accettando me stesso nel grande tessuto divino posso accettare anche gli altri, che formano con me la grande sinfonia della Chiesa e della creazione. Io penso che le piccole umiliazioni, che giorno per giorno dobbiamo vivere, sono salubri, perché aiutano ognuno a riconoscere la propria verità ed essere così liberi da questa vanagloria che è contro la verità e non mi può rendere felice e buono. Accettare e imparare questo, e così imparare ad accettare la mia posizione nella Chiesa, il mio piccolo servizio come grande agli occhi di Dio. E proprio questa umiltà, questo realismo, rende liberi. Se sono arrogante, se sono superbo, vorrei sempre piacere e se non ci riesco sono misero, sono infelice e devo sempre cercare questo piacere. Quando invece sono umile ho la libertà anche di essere in contrasto con un’opinione prevalente, con pensieri di altri, perché l’umiltà mi dà la capacità, la libertà della verità. E così, direi, preghiamo il Signore perché ci aiuti, ci aiuti ad essere realmente costruttori della comunità della Chiesa; che cresca, che noi stessi cresciamo nella grande visione di Dio, del «noi», e siamo membra del Corpo di Cristo, appartenente così, in unità, al Figlio di Dio.
La seconda virtù - ma siamo più brevi – è la «dolcezza», dice la traduzione italiana (Ef 4,2), in greco è praus, cioè «mite, mansueto»; e anche questa è una virtù cristologica come l’umiltà, che è seguire Cristo su questa strada della umiltà. Così anche praus, essere mite, essere mansueto, è sequela di Cristo che dice: Venite da me, io sono mite di cuore (cfr Mt 11,29). Questo non vuol dire debolezza. Cristo può essere anche duro, se necessario, ma sempre con un cuore buono, rimane sempre visibile la bontà, la mansuetudine. Nella Sacra Scrittura, qualche volta, «i mansueti» è semplicemente il nome dei credenti, del piccolo gregge dei poveri che, in tutte le prove, rimangono umili e fermi nella comunione del Signore: cercare questa mitezza, che è il contrario della violenza. La terza beatitudine. Il Vangelo di san Matteo dice: felici i mansueti, perché possederanno la terra (cfr Mt 5,5). Non i violenti possiedono la terra, alla fine rimangono i mansueti: essi hanno la grande promessa, e così noi dobbiamo essere proprio sicuri della promessa di Dio, della mitezza che è più forte della violenza. In questa parola della mansuetudine si nasconde il contrasto con la violenza: i cristiani sono i non violenti, sono gli oppositori della violenza.
E san Paolo prosegue: «con magnanimità» (Ef 4,2): Dio è magnanimo. Nonostante le nostre debolezze e i nostri peccati, sempre di nuovo comincia con noi. Mi perdona, anche se sa che domani cadrò di nuovo nel peccato; distribuisce i suoi doni, anche se sa che siamo spesso amministratori insufficienti. Dio è magnanimo, di grande cuore, ci affida la sua bontà. E questa magnanimità, questa generosità fa parte proprio della sequela di Cristo, di nuovo.
Infine, «sopportandovi a vicenda nell’amore» (Ef 4,2); mi sembra che proprio dall’umiltà segua questa capacità di accettare l’altro. L’alterità dell’altro è sempre un peso. Perché l’altro è diverso? Ma proprio questa diversità, questa alterità è necessaria per la bellezza della sinfonia di Dio. E dobbiamo, proprio con l’umiltà nella quale riconosco i miei limiti, la mia alterità nel confronto con l’altro, il peso che io sono per l’altro, divenire capaci non solo di sopportare l’altro, ma, con amore, trovare proprio nell’alterità anche la ricchezza del suo essere e delle idee e della fantasia di Dio.
Tutto questo, quindi, serve come virtù ecclesiale alla costruzione del Corpo di Cristo, che è lo Spirito di Cristo, perché divenga di nuovo esempio, di nuovo corpo, e cresca. Paolo lo dice poi in concreto, affermando che tutta questa varietà dei doni, dei temperamenti, dell’essere uomo, serve per l’unità (cfr Ef 4,11-13). Tutte queste virtù sono anche virtù dell’unità. Per esempio, per me è molto significativo che la prima Lettera dopo il Nuovo Testamento, la Prima Lettera di Clemente, sia indirizzata ad una comunità, quella dei Corinzi, divisa e sofferente per la divisione (cfr PG 1, 201-328). In questa Lettera, proprio la parola «umiltà» è una parola chiave: sono divisi perché manca l’umiltà, l’assenza dell’umiltà distrugge l’unità. L’umiltà è una fondamentale virtù dell’unità e solo così cresce l’unità del Corpo di Cristo, diventiamo realmente uniti e riceviamo la ricchezza e la bellezza dell’unità. Perciò è logico che l’elenco di queste virtù, che sono virtù ecclesiali, cristologiche, virtù dell’unità, vada verso l’unità esplicita: «un solo Signore, una sola fede, un solo Battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti» (Ef 4,5). Una sola fede e un solo Battesimo, come realtà concreta della Chiesa che sta sotto l’unico Signore.
Battesimo e fede sono inseparabili. Il Battesimo è il Sacramento della fede e la fede ha un duplice aspetto. E’ un atto profondamente personale: io conosco Cristo, mi incontro con Cristo e do fiducia a Lui. Pensiamo alla donna che tocca il suo vestito nella speranza di essere salvata (cfr Mt 9, 20-21); si affida a Lui totalmente e il Signore dice: Sei salva, perché hai creduto (cfr Mt 9, 22). Anche ai lebbrosi, all’unico che ritorna, dice: La tua fede ti ha salvato (cfr Lc 17, 19). Quindi la fede inizialmente è soprattutto un incontro personale, un toccare il vestito di Cristo, un essere toccato da Cristo, essere in contatto con Cristo, affidarsi al Signore, avere e trovare l’amore di Cristo e, nell’amore di Cristo, la chiave anche della verità, dell’universalità. Ma proprio per questo, perché chiave dell’universalità dell’unico Signore, tale fede non è solo un atto personale di fiducia, ma un atto che ha un contenuto. La fides qua esige la fides quae, il contenuto della fede, e il Battesimo esprime questo contenuto: la formula trinitaria è l’elemento sostanziale del credo dei cristiani. Esso, di per sé, è un «sì» a Cristo, e così al Dio Trinitario, con questa realtà, con questo contenuto che mi unisce a questo Signore, a questo Dio, che ha questo Volto: vive come Figlio del Padre nell’unità dello Spirito Santo e nella comunione del Corpo di Cristo. Quindi, questo mi sembra molto importante: la fede ha un contenuto e non è sufficiente, non è un elemento di unificazione se non c’è e non viene vissuto e confessato questo contenuto della unica fede.
Perciò, «Anno della Fede», Anno del Catechismo - per essere molto pratico - sono collegati imprescindibilmente. Rinnoveremo il Concilio solo rinnovando il contenuto - condensato poi di nuovo - del Catechismo della Chiesa Cattolica. E un grande problema della Chiesa attuale è la mancanza di conoscenza della fede, è l’«analfabetismo religioso», come hanno detto i Cardinali venerdì scorso circa questa realtà. «Analfabetismo religioso»; e con questo analfabetismo non possiamo crescere, non può crescere l’unità. Perciò dobbiamo noi stessi appropriarci di nuovo di questo contenuto, come ricchezza dell’unità e non come un pacchetto di dogmi e di comandamenti, ma come una realtà unica che si rivela nella sua profondità e bellezza. Dobbiamo fare il possibile per un rinnovamento catechistico, perché la fede sia conosciuta e così Dio sia conosciuto, Cristo sia conosciuto, la verità sia conosciuta e cresca l’unità nella verità.
Poi tutte queste unità finiscono nel: «un solo Dio e Padre di tutti». Tutto quanto non è umiltà, tutto quanto non è fede comune, distrugge l’unità, distrugge la speranza e rende invisibile il Volto di Dio. Dio è Uno e Unico. Il monoteismo era il grande privilegio di Israele, che ha conosciuto l’unico Dio, e rimane elemento costitutivo della fede cristiana. Il Dio Trinitario - lo sappiamo - non sono tre divinità, ma è un unico Dio; e vediamo meglio che cosa voglia dire unità: unità è unità dell’amore. E’ così: proprio perché è il circolo di amore, Dio è Uno e Unico.
Per Paolo, come abbiamo visto, l’unità di Dio si identifica con la nostra speranza. Perché? In che modo? Perché l’unità di Dio è speranza, perché questa ci garantisce che, alla fine, non ci sono diversi poteri, alla fine non c’è dualismo tra poteri diversi e contrastanti, alla fine non rimane il capo del drago che si potrebbe levare contro Dio, non rimane la sporcizia del male e del peccato. Alla fine rimane solo la luce! Dio è unico ed è l’unico Dio: non c’è altro potere contro di Lui! Sappiamo che oggi, con i mali che viviamo nel mondo sempre più crescenti, molti dubitano dell’Onnipotenza di Dio; anzi diversi teologi – anche buoni – dicono che Dio non sarebbe Onnipotente, perché non sarebbe compatibile con l’onnipotenza quanto vediamo nel mondo; e così essi vogliono creare una nuova apologia, scusare Dio e «discolpare» Dio da questi mali. Ma questo non è il modo giusto, perché se Dio non è Onnipotente, se ci sono e rimangono altri poteri, non è veramente Dio e non è speranza, perché alla fine rimarrebbe il politeismo, alla fine rimarrebbe la lotta, il potere del male. Dio è Onnipotente, l’unico Dio. Certo, nella storia si è dato un limite alla sua onnipotenza, riconoscendo la nostra libertà. Ma alla fine tutto ritorna e non rimane altro potere; questa è la speranza: che la luce vince, l’amore vince! Alla fine non rimane la forza del male, rimane solo Dio! E così siamo nel cammino della speranza, camminando verso l’unità dell’unico Dio, rivelatosi per lo Spirito Santo, nell’Unico Signore, Cristo.
Poi da questa grande visione, san Paolo scende un po’ ai dettagli e dice di Cristo: «Asceso in alto ha portato con sé i prigionieri, ha distribuito doni agli uomini» (Ef 4,8). L’Apostolo cita il Salmo 68, che descrive in modo poetico la salita di Dio con l’Arca dell’Alleanza verso le altezze, verso la cima del Monte Sion, verso il tempio: Dio come vincitore che ha superato gli altri, che sono prigionieri, e, come un vero vincitore, distribuisce doni. Il Giudaismo ha visto in questo piuttosto un’immagine di Mosé, che sale verso il Monte Sinai per ricevere nell’altezza la volontà di Dio, i Comandamenti, non considerati come peso, ma come il dono di conoscere il Volto di Dio, la volontà di Dio. Paolo, alla fine, vede qui un’immagine dell’ascesa di Cristo che sale in alto dopo essere sceso; sale e tira l’umanità verso Dio, fà posto per la carne e il sangue in Dio stesso; ci tira verso l’altezza del suo essere Figlio e ci libera dalla prigionia del peccato, ci rende liberi perché vincitore. Essendo vincitore, Egli distribuisce i doni. E così siamo arrivati dall’ascesa di Cristo alla Chiesa. I doni sono la charis come tale, la grazia: essere nella grazia, nell’amore di Dio. E poi i carismi che concretizzano la charis nelle singole funzioni e missioni: apostoli, profeti, evangelisti, pastori e maestri per edificare così il Corpo di Cristo (cfr Ef 4,11).
Non vorrei entrare adesso in un’esegesi dettagliata. E’ molto discusso qui che cosa voglia dire apostoli, profeti… In ogni caso, possiamo dire che la Chiesa è costruita sul fondamento della fede apostolica, che rimane sempre presente: gli Apostoli, nella successione apostolica, sono presenti nei Pastori, che siamo noi, per la grazia di Dio e nonostante tutta la nostra povertà. E siamo grati a Dio che ci ha voluto chiamare per stare nella successione apostolica e continuare ad edificare il Corpo di Cristo. Qui appare un elemento che mi sembra importante: i ministeri – i cosiddetti ministeri – sono chiamati «doni di Cristo», sono carismi; cioè, non c’è questa opposizione: da una parte il ministero, come una cosa giuridica, e dall’altra i carismi, come dono profetico, vivace, spirituale, come presenza dello Spirito e la sua novità. No! Proprio i ministeri sono dono del Risorto e sono carismi, sono articolazioni della sua grazia; uno non può essere sacerdote senza essere carismatico. E’ un carisma essere sacerdote. Questo - mi sembra - dobbiamo tenerlo presente: essere chiamato al sacerdozio, essere chiamato con un dono del Signore, con un carisma del Signore. E così, ispirati dal suo Spirito, dobbiamo cercare di vivere questo nostro carisma. Solo in questo modo penso si possa capire che la Chiesa in Occidente ha collegato inscindibilmente sacerdozio e celibato: essere in un’esistenza escatologica verso l’ultima destinazione della nostra speranza, verso Dio. Proprio perché il sacerdozio è un carisma e deve essere anche collegato con un carisma: se non fosse questo e fosse solamente una cosa giuridica, sarebbe assurdo imporre un carisma, che è un vero carisma; ma se il sacerdozio stesso è carisma, è normale che conviva con il carisma, con lo stato carismatico della vita escatologica.
Preghiamo il Signore perché ci aiuti a capire sempre di più questo, a vivere sempre più nel carisma dello Spirito Santo e a vivere così anche questo segno escatologico della fedeltà al Signore Unico, che proprio per il nostro tempo è necessario, con la decomposizione del matrimonio e della famiglia, che possono comporsi solo nella luce di questa fedeltà all’unica chiamata del Signore.
Un ultimo punto. San Paolo parla della crescita dell’uomo perfetto, che raggiunge la misura della pienezza di Cristo: non saremo più fanciulli in balia delle onde, trasportati da qualsiasi vento di dottrina (cfr Ef 4,13-14). «Al contrario, agendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa, tendendo a Lui» (Ef 4,15). Non si può vivere in una fanciullezza spirituale, in una fanciullezza di fede: purtroppo, in questo nostro mondo, vediamo questa fanciullezza. Molti, oltre la prima catechesi, non sono più andati avanti; forse è rimasto questo nucleo, forse si è anche distrutto. E del resto, essi sono sulle onde del mondo e nient’altro; non possono, come adulti, con competenza e con convinzione profonda, esporre e rendere presente la filosofia della fede - per così dire - la grande saggezza, la razionalità della fede, che apre gli occhi anche degli altri, che apre gli occhi proprio su quanto è buono e vero nel mondo. Manca questo essere adulti nella fede e rimane la fanciullezza nella fede.
Certo, in questi ultimi decenni, abbiamo vissuto anche un altro uso della parola «fede adulta». Si parla di «fede adulta», cioè emancipata dal Magistero della Chiesa. Fino a quando sono sotto la madre, sono fanciullo, devo emanciparmi; emancipato dal Magistero, sono finalmente adulto. Ma il risultato non è una fede adulta, il risultato è la dipendenza dalle onde del mondo, dalle opinioni del mondo, dalla dittatura dei mezzi di comunicazione, dall’opinione che tutti pensano e vogliono. Non è vera emancipazione, l’emancipazione dalla comunione del Corpo di Cristo! Al contrario, è cadere sotto la dittatura delle onde, del vento del mondo. La vera emancipazione è proprio liberarsi da questa dittatura, nella libertà dei figli di Dio che credono insieme nel Corpo di Cristo, con il Cristo Risorto, e vedono così la realtà, e sono capaci di rispondere alle sfide del nostro tempo.
Mi sembra che dobbiamo pregare molto il Signore, perché ci aiuti ad essere emancipati in questo senso, liberi in questo senso, con una fede realmente adulta, che vede, fa vedere e può aiutare anche gli altri ad arrivare alla vera perfezione, alla vera età adulta, in comunione con Cristo.
In questo contesto c’è la bella espressione dell’aletheuein en te agape, essere veri nella carità, vivere la verità, essere verità nella carità: i due concetti vanno insieme. Oggi il concetto di verità è un po’ sotto sospetto perché si combina verità con violenza. Purtroppo nella storia ci sono stati anche episodi dove si cercava di difendere la verità con la violenza. Ma le due sono contrarie. La verità non si impone con altri mezzi, se non da se stessa! La verità può arrivare solo tramite se stessa, la propria luce. Ma abbiamo bisogno della verità; senza verità non conosciamo i veri valori e come potremo ordinare il kosmos dei valori? Senza verità siamo ciechi nel mondo, non abbiamo strada. Il grande dono di Cristo è proprio che vediamo il Volto di Dio e, anche se in modo enigmatico, molto insufficiente, conosciamo il fondo, l’essenziale della verità in Cristo, nel suo Corpo. E conoscendo questa verità, cresciamo anche nella carità che è la legittimazione della verità e ci mostra che è verità. Direi proprio che la carità è il frutto della verità - l’albero si conosce dai frutti – e se non c’è carità, anche la verità non è propriamente appropriata, vissuta; e dove è la verità, nasce la carità. Grazie a Dio, lo vediamo in tutti i secoli: nonostante i fatti negativi, il frutto della carità è sempre stato presente nella cristianità e lo è oggi! Lo vediamo nei martiri, lo vediamo in tante suore, frati e sacerdoti che servono umilmente i poveri, i malati, che sono presenza della carità di Cristo. E così sono il grande segno che qui è la verità.
Preghiamo il Signore perché ci aiuti a portare il frutto della carità ed essere così testimoni della sua verità. Grazie.
"Lectio divina" is a reflection on the Sacred Scriptures made by selecting a biblical passage and commenting on it. Pope Benedict usually presents them off the cuff, in the style of the ancient Fathers of the Church or the great theological masters of the Middle Ages, always with an attentive eye to the events and culture of today.
The essential spirit of "lectio divina" is the one expressed by Jesus when he was tempted by the devil in his "Lent" in the desert: "Man does not live on bread alone, but on every word that comes from the mouth of God."
Of the five texts cited, the most evocative are certainly the two "lectio," the complete transcriptions of which are available on the Vatican website, in the process of being translated into the various languages.
But here below is reproduced the one that, out of the five, is the most instructive. In it, Benedict XVI explains in simple words what Lent is, and teaches how to live it.
It is the catechesis that the pope gave to the thousands of pilgrims packed into the audience hall on the morning of February 22, Ash Wednesday.
The essential spirit of "lectio divina" is the one expressed by Jesus when he was tempted by the devil in his "Lent" in the desert: "Man does not live on bread alone, but on every word that comes from the mouth of God."
Of the five texts cited, the most evocative are certainly the two "lectio," the complete transcriptions of which are available on the Vatican website, in the process of being translated into the various languages.
But here below is reproduced the one that, out of the five, is the most instructive. In it, Benedict XVI explains in simple words what Lent is, and teaches how to live it.
It is the catechesis that the pope gave to the thousands of pilgrims packed into the audience hall on the morning of February 22, Ash Wednesday.
"THE PILGRIM CHURCH IN THE DESERT OF THE WORLD..."
by Benedict XVI
Dear brothers and sisters, in this Catechesis I would like to dwell briefly on the season of Lent. It is a journey of forty days that will lead us to the Paschal Triduum, memorial of the passion, death and resurrection of the Lord, the heart of the mystery of our salvation.
In the early centuries of the Church this was the time when those who had heard and accepted the message of Christ began, step by step, their journey of faith and conversion to receive the sacrament of baptism. It was a drawing close to the living God and an initiation of the faith to be gradually accomplished, through an inner change in the catechumens, that is, those who wished to become Christians and thus be incorporated into Christ and the Church.
Subsequently, penitents, and then all the faithful were invited to experience this journey of spiritual renewal, to conform themselves and their lives to that of Christ.
The participation of the whole community in the different steps of the Lenten path emphasizes an important dimension of Christian spirituality: redemption is not available to only a few, but to all, through the death and resurrection of Christ. Therefore, those who follow a journey of faith as catechumens to receive baptism, those who had strayed from God and the community of faith and seek reconciliation and those who lived their faith in full communion with the Church, together knew that the period before Easter is a period of metanoia, that is, of inner change, of repentance, the period that identifies our human life and our entire history as a process of conversion that is set in motion now in order to meet the Lord at the end of time.
In an expression that has become typical in the Liturgy, the Church calls the period in which we are now entering "Quadragesima," in short a period of forty days and, with a clear reference to Sacred Scripture, it introduces us to a specific spiritual context.
Forty is in fact the symbolic number in which salient moments of the experience of faith of the People of God are expressed. A figure that expresses the time of waiting, purification, return to the Lord, the awareness that God is faithful to his promises.
This number does not represent an exact chronological time, divided by the sum of the days. Rather it indicates a patient perseverance, a long trial, a sufficient period to see the works of God, a time within which we must make up our minds and to decide to accept our own responsibilities without additional references. It is the time for mature decisions.
The number forty first appears in the story of Noah. This just man because of the flood spends forty days and forty nights in the ark, along with his family and animals that God had told him to bring. He waits for another forty days, after the flood, before finding land, saved from destruction (Gen 7,4.12, 8.6).
Then, the next stop, Moses on Mount Sinai, in the presence of the Lord, for forty days and forty nights to receive the Law. He fasts throughout this period (Exodus 24:18).
Forty, the number of years the Jewish people journeyed from Egypt to the Promised Land, the right amount of time for them to experience the faithfulness of God: " Remember how for these forty years the LORD, your God, has directed all your journeying in the wilderness... The clothing did not fall from you in tatters, nor did your feet swell these forty years, "says Moses in Deuteronomy at the end of the forty years of migration (Dt 8,2.4).
The years of peace enjoyed by Israel under the Judges are forty (Judg. 3,11.30), but, once this time ended, forgetfulness of the gifts of God begins and a return to sin.
The prophet Elijah takes forty days to reach Horeb, the mountain where he meets God (1 Kings 19.8).
Forty are the days during which the people of Nineveh do penance for the forgiveness of God (Gen 3.4).
Forty were also the years of the reign of Saul (Acts 13:21), David (2 Sam 5:4-5) and Solomon (1 Kings 11:41), the first three kings of Israel.
Even the biblical Psalms reflect on the meaning of the forty years, such as Psalm 95 for example, of which we heard a passage: "If you would listen to his voice today! " Oh, that today you would hear his voice: Do not harden your hearts as at Meribah, as on the day of Massah in the desert. There your ancestors tested me; they tried me though they had seen my works. Forty years I loathed that generation; I said: “This people’s heart goes astray; they do not know my ways"(vv. 7c-10).
In the New Testament Jesus, before beginning of his public life, retires to the desert for forty days without food or drink (Matt. 4.2): he nourishes himself on the Word of God, which he uses as a weapon to conquer the devil. The temptations of Jesus recall those the Jewish people faced in the desert, but could not conquer.
Forty are the days during which the risen Jesus instructs his disciples, before ascending to heaven and sending the Holy Spirit (Acts 1.3).
A spiritual context is described by this recurring number forty, one that remains current and valid, and the Church, precisely through the days of Lent, intends to maintain its enduring value and make us aware of its efficacy.
The Christian liturgy of Lent is intended to facilitate a journey of spiritual renewal in the light of this long biblical experience and especially to learn how to imitate Jesus, who in the forty days spent in the desert taught how to overcome temptation with the Word of God.
The forty years of Israel’s wandering in the desert present us with ambivalent attitudes and situations. On the one hand they are the first season of love between God and his people when He spoke to his heart, continuously indicating the path to follow to them. God had pitched his tent, so to speak, in the midst of Israel, He preceded it in a cloud or a pillar of fire, ensured its daily nourishment showering manna upon them, and bringing forth water from rock. Therefore, the years spent by Israel in the desert can be seen as the time of the special election of God and adherence to Him by the people. The time of first love.
On the other hand, the Bible also shows another image of Israel's wanderings in the desert: it is also the time of the greatest temptations and dangers, when Israel murmured against God and wanted to return to paganism and builds its own idols, as a need to worship a closer and more tangible God. It is also a time of rebellion against the great and invisible God.
This ambivalence, a period of special closeness to God, of first love and of temptation, the attempted return to paganism that characterized Israel in the desert, we find once again in a surprising way even in Jesus' earthly journey, of course without any compromise with sin.
After his baptism of repentance in the Jordan, in which he takes upon himself the destiny of the Servant of Yahweh God who renounces himself and lives for others and places himself among sinners, to take upon himself the sins of the world, Jesus went to stay in the desert for forty days in deep union with the Father, thus repeating the history of Israel and all these rhythms of forty days a year. This dynamic is a constant in the earthly life of Jesus, who always seeks moments of solitude to pray to his Father and remain in close and intimate communion with Him alone, and exclusive communion with Him, and then return among the people.
But in these times of "desert" and special encounter with the Father, Jesus is exposed to danger and is assailed by temptation and the seduction of devil, who offers him another messianic way, far from God's plan, because it passes through power, success, dominion and not through the total gift on the Cross. This is the alternative, messianism of power, of success, not messianism of gift and love of self.
This ambivalence also describes the condition of the pilgrim Church in the "desert" of the world and history.
In this "desert" we believers certainly have the opportunity to profoundly experience God, an experience that makes the spirit strong, confirms the faith, nourishes hope, animates charity; an experience that makes us partakers of Christ's victory over sin and death through the Sacrifice of love on the Cross.
But the "desert" is also the negative aspects of the reality that surrounds us: the arid, the poverty of words of life and of values, secularism and the materialist culture, which shut people within a horizon of mundane existence, robbing them of all reference to transcendence. And this is also the environment in which the sky above us is obscured, because covered by the clouds of egoism, misunderstanding and deception.
Despite this, even for the Church of today the time of the desert can be transformed into a time of grace, because we have the certainty that even from the hardest rock God can bring forth the living water that refreshes and restores.
Dear brothers and sisters, in these forty days that will lead us to Easter may we find new courage to accept with patience and with faith situations of difficulty, of affliction and trial, knowing that from the darkness the Lord will make a new day dawn.
And if we are faithful to Jesus and follow him on the way of the Cross, the bright world of God, the world of light, truth and joy will be gifted to us once more: it will be the new dawn created by God himself.
May you all have a good Lenten journey!
[Vatican Radio translation]
__________
English translation by Matthew Sherry, Ballwin, Missouri, U.S.
by Benedict XVI
Dear brothers and sisters, in this Catechesis I would like to dwell briefly on the season of Lent. It is a journey of forty days that will lead us to the Paschal Triduum, memorial of the passion, death and resurrection of the Lord, the heart of the mystery of our salvation.
In the early centuries of the Church this was the time when those who had heard and accepted the message of Christ began, step by step, their journey of faith and conversion to receive the sacrament of baptism. It was a drawing close to the living God and an initiation of the faith to be gradually accomplished, through an inner change in the catechumens, that is, those who wished to become Christians and thus be incorporated into Christ and the Church.
Subsequently, penitents, and then all the faithful were invited to experience this journey of spiritual renewal, to conform themselves and their lives to that of Christ.
The participation of the whole community in the different steps of the Lenten path emphasizes an important dimension of Christian spirituality: redemption is not available to only a few, but to all, through the death and resurrection of Christ. Therefore, those who follow a journey of faith as catechumens to receive baptism, those who had strayed from God and the community of faith and seek reconciliation and those who lived their faith in full communion with the Church, together knew that the period before Easter is a period of metanoia, that is, of inner change, of repentance, the period that identifies our human life and our entire history as a process of conversion that is set in motion now in order to meet the Lord at the end of time.
In an expression that has become typical in the Liturgy, the Church calls the period in which we are now entering "Quadragesima," in short a period of forty days and, with a clear reference to Sacred Scripture, it introduces us to a specific spiritual context.
Forty is in fact the symbolic number in which salient moments of the experience of faith of the People of God are expressed. A figure that expresses the time of waiting, purification, return to the Lord, the awareness that God is faithful to his promises.
This number does not represent an exact chronological time, divided by the sum of the days. Rather it indicates a patient perseverance, a long trial, a sufficient period to see the works of God, a time within which we must make up our minds and to decide to accept our own responsibilities without additional references. It is the time for mature decisions.
The number forty first appears in the story of Noah. This just man because of the flood spends forty days and forty nights in the ark, along with his family and animals that God had told him to bring. He waits for another forty days, after the flood, before finding land, saved from destruction (Gen 7,4.12, 8.6).
Then, the next stop, Moses on Mount Sinai, in the presence of the Lord, for forty days and forty nights to receive the Law. He fasts throughout this period (Exodus 24:18).
Forty, the number of years the Jewish people journeyed from Egypt to the Promised Land, the right amount of time for them to experience the faithfulness of God: " Remember how for these forty years the LORD, your God, has directed all your journeying in the wilderness... The clothing did not fall from you in tatters, nor did your feet swell these forty years, "says Moses in Deuteronomy at the end of the forty years of migration (Dt 8,2.4).
The years of peace enjoyed by Israel under the Judges are forty (Judg. 3,11.30), but, once this time ended, forgetfulness of the gifts of God begins and a return to sin.
The prophet Elijah takes forty days to reach Horeb, the mountain where he meets God (1 Kings 19.8).
Forty are the days during which the people of Nineveh do penance for the forgiveness of God (Gen 3.4).
Forty were also the years of the reign of Saul (Acts 13:21), David (2 Sam 5:4-5) and Solomon (1 Kings 11:41), the first three kings of Israel.
Even the biblical Psalms reflect on the meaning of the forty years, such as Psalm 95 for example, of which we heard a passage: "If you would listen to his voice today! " Oh, that today you would hear his voice: Do not harden your hearts as at Meribah, as on the day of Massah in the desert. There your ancestors tested me; they tried me though they had seen my works. Forty years I loathed that generation; I said: “This people’s heart goes astray; they do not know my ways"(vv. 7c-10).
In the New Testament Jesus, before beginning of his public life, retires to the desert for forty days without food or drink (Matt. 4.2): he nourishes himself on the Word of God, which he uses as a weapon to conquer the devil. The temptations of Jesus recall those the Jewish people faced in the desert, but could not conquer.
Forty are the days during which the risen Jesus instructs his disciples, before ascending to heaven and sending the Holy Spirit (Acts 1.3).
A spiritual context is described by this recurring number forty, one that remains current and valid, and the Church, precisely through the days of Lent, intends to maintain its enduring value and make us aware of its efficacy.
The Christian liturgy of Lent is intended to facilitate a journey of spiritual renewal in the light of this long biblical experience and especially to learn how to imitate Jesus, who in the forty days spent in the desert taught how to overcome temptation with the Word of God.
The forty years of Israel’s wandering in the desert present us with ambivalent attitudes and situations. On the one hand they are the first season of love between God and his people when He spoke to his heart, continuously indicating the path to follow to them. God had pitched his tent, so to speak, in the midst of Israel, He preceded it in a cloud or a pillar of fire, ensured its daily nourishment showering manna upon them, and bringing forth water from rock. Therefore, the years spent by Israel in the desert can be seen as the time of the special election of God and adherence to Him by the people. The time of first love.
On the other hand, the Bible also shows another image of Israel's wanderings in the desert: it is also the time of the greatest temptations and dangers, when Israel murmured against God and wanted to return to paganism and builds its own idols, as a need to worship a closer and more tangible God. It is also a time of rebellion against the great and invisible God.
This ambivalence, a period of special closeness to God, of first love and of temptation, the attempted return to paganism that characterized Israel in the desert, we find once again in a surprising way even in Jesus' earthly journey, of course without any compromise with sin.
After his baptism of repentance in the Jordan, in which he takes upon himself the destiny of the Servant of Yahweh God who renounces himself and lives for others and places himself among sinners, to take upon himself the sins of the world, Jesus went to stay in the desert for forty days in deep union with the Father, thus repeating the history of Israel and all these rhythms of forty days a year. This dynamic is a constant in the earthly life of Jesus, who always seeks moments of solitude to pray to his Father and remain in close and intimate communion with Him alone, and exclusive communion with Him, and then return among the people.
But in these times of "desert" and special encounter with the Father, Jesus is exposed to danger and is assailed by temptation and the seduction of devil, who offers him another messianic way, far from God's plan, because it passes through power, success, dominion and not through the total gift on the Cross. This is the alternative, messianism of power, of success, not messianism of gift and love of self.
This ambivalence also describes the condition of the pilgrim Church in the "desert" of the world and history.
In this "desert" we believers certainly have the opportunity to profoundly experience God, an experience that makes the spirit strong, confirms the faith, nourishes hope, animates charity; an experience that makes us partakers of Christ's victory over sin and death through the Sacrifice of love on the Cross.
But the "desert" is also the negative aspects of the reality that surrounds us: the arid, the poverty of words of life and of values, secularism and the materialist culture, which shut people within a horizon of mundane existence, robbing them of all reference to transcendence. And this is also the environment in which the sky above us is obscured, because covered by the clouds of egoism, misunderstanding and deception.
Despite this, even for the Church of today the time of the desert can be transformed into a time of grace, because we have the certainty that even from the hardest rock God can bring forth the living water that refreshes and restores.
Dear brothers and sisters, in these forty days that will lead us to Easter may we find new courage to accept with patience and with faith situations of difficulty, of affliction and trial, knowing that from the darkness the Lord will make a new day dawn.
And if we are faithful to Jesus and follow him on the way of the Cross, the bright world of God, the world of light, truth and joy will be gifted to us once more: it will be the new dawn created by God himself.
May you all have a good Lenten journey!
[Vatican Radio translation]
__________
English translation by Matthew Sherry, Ballwin, Missouri, U.S.
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